ITALIA, ULTIMA DELLA CLASSE PER CAPACITA’ DI INTERCETTARE BUONI PIANI INDUSTRIALI

UN INVESTIMENTO TIRA L’ALTRO; VICEVERSA, NEL VUOTO E’ PIU’ DIFFICILE ATTRARRE GLI INVESTITORI E IL PAESE RISCHIA DI STABILIZZARSI IN UN EQUILIBRIO DETERIORE

Articolo di Giorgio Barba Navaretti, pubblicato sul Sole 24 ore il 5 novembre 2010

Ogni tanto anche le acque stagnanti portano buone notizie. Gli investimenti esteri in Italia e quelli italiani all’estero, tra il 2007 ed il 2009 non sono aumentati né diminuiti.
Ma le buone nuove, purtroppo, finiscono qui. Se confrontiamo l’Italia agli altri paesi europei siamo maledettamente indietro: il valore complessivo dello stock d’investimenti diretti italiani all’estero è 27,4% del Pil; quello degli investimenti esteri in Italia il 18,6 per cento. In Francia sono rispettivamente pari al 64,9 ed al 42,8 per cento.

E siccome siamo indietro rispetto al resto dell’Europa, rischiamo che lo stagno presto si trasformi in un vortice che risucchi tutta l’acqua lasciando solo un putrido fondo melmoso. Avete presente quel film di 007 dove il rifugio del cattivo è nascosto da un lago finto che si svuota non appena il cattivo in questione apre una saracinesca?

Il rischio, dunque, è che se gli investimenti in entrata e in uscita scendono sotto una certa soglia si inneschi un processo a catena che allora veramente porterà alla deindustrializzazione del paese. L’Italia è a un passaggio critico da questo punto di vista e soprattutto non ha più tempo. Questo è forse il principale messaggio che si può trarre dal rapporto sull’Italia multinazionale, appena pubblicato da Ice/Fondazione Masi e scritto da Sergio Mariotti e Marco Mutinelli.

Per quale ragione questo evento è plausibile, perché dovrebbe mai aprirsi la saracinesca sul fondo dello stagno? Intanto perché più investimenti sia in entrata che in uscita ci sono più ne arrivano. Un laboratorio di ricerca come può funzionare se non c’è una massa critica di ricercatori, infrastrutture, scuole per i figli dei manager stranieri e così via?

Maggiore è il numero di imprese presenti, maggiore sarà la disponibilità di questi fattori che le imprese utilizzano. Se un numero critico d’imprese lascia l’Italia, anche gli altri potrebbero andarsene. Questo è esattamente quello che è successo in Irlanda con la crisi finanziaria.
E, quando le nostre imprese vanno all’estero, spesso lo fanno inseguendo i clienti (per servirli) o i concorrenti (per emularli). Se non c’è una massa critica di aziende italiane che produce globalmente, rischiamo di venire tagliati fuori dai paesi più dinamici e in crescita.

La seconda ragione è che investimenti in entrata e in uscita innestano tra loro processi virtuosi che si rafforzano a vicenda. Le attività estere delle imprese sono un complemento essenziale di quelle che rimangono in Italia. Molti più impianti nazionali avrebbero chiuso se i nostri imprenditori non avessero inseguito mercati più dinamici con costi di produzione più bassi.

Ma perché ci sia una sinergia tra quanto è fuori e quel che rimane a casa, l’economia nazionale deve continuare a essere un luogo dove si svolgono parti essenziali del processo produttivo in modo efficace. Gli stessi fattori che rendono l’Italia poco interessante per gli stranieri, spingono i nostri produttori a chiudere gli impianti del tutto e addio sinergie virtuose.

Infine, terzo motivo, l’attrattività del nostro territorio dipende da cosa avviene in casa d’altri. L’Italia oggi è in un sandwich. Da una lato ci sono i paesi nord occidentali dove le multinazionali concentrano headquarter e attività high tech come la ricerca.

Dall’altra i paesi emergenti, soprattutto quelli europei, dove va la produzione manifatturiera. Noi in mezzo rischiamo di fare il companatico con supermercati e alberghi: utili, ma con poco valore aggiunto.

Lezione: rimbocchiamoci le maniche e subito, lo sviluppo o la perdita di attività produttiva non è un processo continuo ma segue dei gradini. Se ne scendiamo uno rischiamo di rimanerci per sempre o essere obbligati a scendere ancora.
Che fare? I fattori che influenzano le scelte degli investitori esteri sono gli stessi che determinano la competitività delle imprese nazionali e la loro capacità di andare all’estero. I progressi del tavolo sul patto sociale sono un passo importante e utile, ma senza un governo che faccia la sua parte non si riesce ad andare lontano. Non è questione di soldi, ma di certezza delle regole.

Un diritto del lavoro che, come sostiene da tempo Pietro Ichino, è intraducibile in inglese (sia per la sua ipertrofia e disorganicità, sia per il suo linguaggio, sia perché è impossibile derivarne regole chiare per un potenziale investitore sulle materie cruciali), scoraggia chiunque voglia mettere un dollaro da noi. E così l’incertezza e la complessità della normativa fiscale ha un costo implicito maggiore delle pur elevate aliquote. E infine, quanto costano i 1.210 giorni necessari a risolvere una controversia contrattuale (331 in Francia)?

Riformare le regole non costa all’erario. Ha solo un costo politico. Chi è disposto a sostenerlo?

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