FLEXSECURITY: LA CONTRO-REPLICA DI FIORETTI (E LA MIA)

Dopo l’intervento su Micromega dell’ottobre scorso e la mia replica punto per punto, ora Renato Fioretti propone una controreplica (2 novembre 2010), cui a mia volta rispondo – Anche qui le mie risposte sono evidenziate in paragrafi rientrati, carattere corsivo e colore azzurro: segnalo in particolare quelle relative all’ultima parte, in tema di legge Biagi, che vertono sulla questione se davvero quella legge abbia introdotto nuove forme di lavoro precario nel nostro sistema (mi sembra che dal confronto esca confermata la mia risposta nettamente negativa in proposito)

Egregio Professore, in primo luogo la ringrazio per il tono pacato delle sue repliche.
Lo stesso mi conforta perché, evidentemente, mi si riconosce di non aver alterato il suo pensiero.
In ossequio alla sintesi, limiterò la mia contro-replica ai punti da lei sollevati.

Circa la discendenza “darwiniana” del suo progetto dal c.d. “contratto unico” di Boeri:
non era mia intenzione sottovalutare e/o sottacere il valore della sua opera di studioso. Era un’esigenza dettata dal fatto che se sono tanti a conoscere le sue pubblicazioni, sono tantissimi coloro i quali – nel corso degli ultimi anni – hanno almeno una volta sentito parlare, in televisione come dai quotidiani, del “contratto unico” di Boeri. Per tanti lettori sarebbe stato molto più facile capire il collegamento.

Rispetto alla definizione di contratto a termine “a scadenza variabile”: innanzi tutto preciso che tale definizione non era stata utilizzata dal Prof. Roccella nel corso del confronto con Boeri, ma rappresentava il frutto di una mia personale considerazione. In quella sede, Roccella si limitava a evidenziare che il contratto unico rappresentava un’ulteriore tipologia contrattuale.
Nel merito, non ho mai inteso ritenere – come lei sostiene – che laddove non si applichi l’art. 18 della legge 300 il rapporto di lavoro debba considerarsi a termine. Molto più semplicemente, ribadisco che laddove il rapporto di lavoro instaurato dovesse prevedere la possibilità di essere risolto – in qualsiasi momento, durante l’arco di ben venti anni – per motivi non riconducibili a: licenziamento per motivo oggettivo, per giusta causa o collettivo, dimissioni, risoluzione consensuale, raggiunti limiti di età o cause indipendenti dalla volontà delle parti, parlare di rapporto di lavoro a tempo indeterminato è per lo meno fuorviante; perché non corrispondente alla vigente (comune) nozione di “tempo indeterminato”.

Il concetto di “contratto a tempo indeterminato”, nel nostro diritto civile, comprende tutti i contratti di durata dei quali non sia pattuito dalle parti stipulanti un termine. Dunque, un contratto di lavoro senza termine va sicuramente qualificato come “contratto a tempo indeterminato” anche se l’ordinamento non dispone alcuna limitazione alla facoltà di recesso di una o di entrambe le parti. Nel caso del mio progetto flexsecurity, peraltro, le limitazioni alla facoltà di recesso sono previste eccome, anche se – per la parte relativa al licenziamento per motivo oggettivo – sono costruite con una tecnica normativa diversa da quella centrata sul controllo giudiziale del motivo stesso. In altri miei scritti mi sono proposto di mostrare che anche nel contesto della disciplina oggi vigente la nozione di “giustificato motivo oggettivo”  coincide con quella di “perdita attesa, per l’azienda, superiore a una determinata soglia”: la sola differenza, nel mio progetto, sta nel fatto che io propongo che l’accertamento della sussistenza di tale perdita attesa avvenga attraverso il filtro automatico del firing cost, mentre nella disciplina oggi vigente l’accertamento è affidato a un giudice. L’errore della sinistra italiana sta proprio nel non riuscire a concepire una forma diversa di tutela della continuità del lavoro e del reddito, se non nella forma dell’articolo 18 dello Statuto del 1970: al di fuori di quello ci sarebbe soltanto “precariato”.  (p.i.)

Per quanto riguarda la sua obiezione secondo la quale il suo progetto non prevedrebbe una deroga all’art. 18: ricorro a quanto da lei affermato nella relazione di accompagnamento al ddl 1481.
Al punto ii), lei dichiara: ”La flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti”. Inoltre, l’art. 7, comma 6, secondo periodo, del ddl 1481, recita: “ Quando il lavoratore abbia maturato venti anni di anzianità di servizio, il licenziamento motivato con esigenze oggettive si presume dettato da intendimento di discriminazione in ragione dell’età, con conseguente applicazione dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300”. E’ del tutto evidente, a mio parere, che l’applicabilità dell’art. 18 non sia prevista durante i primi venti anni di servizio! Se preferisce, si potrebbe parlare di sostanziale “sospensione” dell’art. 18, piuttosto che di “deroga”.

Nel mio progetto, per quel che riguarda il licenziamento per motivo economico od organizzativo, l’articolo 18 non è né derogato né sospeso: è semplicemente sostituito da una norma di protezione del lavoratore radicalmente diversa, che tende a conformare il nostro ordinamento al modello della flexsecurity nord-europea. Nel linguaggio giuridico i termini non possono essere usati in modo approssimativo: una cosa è la deroga o la sospensione di efficacia di una norma, tutt’altra cosa è la sostituzione di una norma con un’altra. (p.i.)

Rispetto al licenziamento discriminatorio: condivido l’auspicio secondo il quale nel nostro Paese sarebbe opportuno contare su un’efficace protezione anti-discriminatoria. Il dato incontrovertibile è rappresentato dal fatto che, di là dall’esito dei ricorsi ai sensi dell’art. 28 dello Statuto – per i più svariati motivi – la realtà dimostra che, stante l’onere della prova “a carico del lavoratore”, è oltremodo difficile dimostrare gli estremi di un licenziamento per motivi discriminatori.

Oggi l’accertamento giudiziale circa la giusta causa o giustificato motivo di licenziamento precede logicamente e assorbe l’accertamento della discriminazione: questo è il motivo per cui, in materia di licenziamenti, le sentenze investono soltanto la materia della giusta causa o giustificato motivo, e solo molto raramente arrivano a investire la questione della discriminazione. Nei Paesi nei quali il controllo giudiziale sulla giusta causa o giustificato motivo è limitato o assente, la giurisprudenza antidiscriminatoria è corrispondentemente molto più estesa e penetrante. Osservo comunque che ormai da un ventennio, nel nostro ordinamento, per effetto dell’art. 4 della legge n. 125/1991, l’onere della prova in materia di discriminazioni non grava più interamente sul lavoratore, essendo in parte accollato al datore di lavoro l’onere della prova contraria. (p.i.)

Relativamente alla possibilità offerta al giudice di superare “ il vecchio apparato sanzionatorio dettato dall’art. 18”: preso atto che la disposizione prevista dal ddl non sarebbe riferibile ai casi di licenziamento discriminatorio e condividendo il caso (particolarissimo) da lei indicato – reintegra dell’insegnante sospettata di comportamenti amorali e censurabilissimi – resta immotivata l’ipotesi della riduzione del risarcimento del danno. Così come resta poco convincente l’impossibilità della reintegrazione nei casi di cui all’art. 6, comma 5, del ddl. Al riguardo, ho la (strana) sensazione che – contrariamente ad ogni logica, oltre allo stesso dettato costituzionale – si parta dall’assunto che laddove si assista a un licenziamento disciplinare, seppure smentito da un giudizio di merito, ci si trovi, comunque, di fronte ad un soggetto “sgradito”.

La riduzione del risarcimento del danno si giustifica in tutti i casi nei quali il giudice ravvisa un concorso di colpa del lavoratore: per esempio, se il lavoratore ha compiuto una mancanza rilevante, ma non abbastanza grave da giustificare il licenziamento, a me sembra del tutto ragionevole che il giudice possa ridurre corrispondentemente il risarcimento del danno cui il lavoratore ha diritto. (p.i.)

Rispetto all’indennità di licenziamento e al trattamento complementare: rilevo che avevo già (correttamente) illustrato tutti i numerosi e interessanti elementi di riflessione che rendevano il ddl una proposta “compiuta”, rispetto al contratto unico di Boeri.

Per quanto attiene la costituzione dell’Agenzia per il ricollocamento:
preciso di non aver mai parlato di alcun “vincolo” a favore di eventuali Enti bilaterali.

Circa la (possibile) diversa gestione del c.d. “preavviso”:
immaginavo di essere stato sufficientemente chiaro. Premetto che le mie considerazioni rappresentavano il frutto della conoscenza di realtà consolidate nel mercato del lavoro, che nulla hanno a che vedere con le situazioni “ottimali” che ciascuno di noi auspicherebbe. Detto questo, aggiungo di non aver parlato di provvedimento affatto negativo; l’ho considerata un’opzione “solo apparentemente positiva”, perché continuo a ritenere che – scontata la possibilità del lavoratore di accettare o meno la revoca del provvedimento – essa rappresenterebbe un notevole condizionamento per la stragrande maggioranza di quei lavoratori per i quali la perdita del proprio posto di lavoro – senza alcuna (concreta) alternativa – equivarrebbe a un dramma personale e familiare, oltre che un danno esistenziale. Sarebbe sufficiente valutare le concrete possibilità di successo – oggi disponibili – a favore di un soggetto (licenziato) alla ricerca di una nuova occupazione!

I dati Istat-Banca d’Italia, disponibili anche su questo sito, mostrano che in Italia 8 lavoratori su 10 che perdono il posto di lavoro lo ritrovano entro un anno. Se fossero aiutati meglio, probabilmente sarebbero 9 su 10 a ritrovarlo entro lo stesso termine. (p.i.)

Circa i soggetti cui destinare le norme previste dal ddl 1481: premetto che davo per scontata l’applicazione dell’art. 18 ai nove milioni di lavoratori che lei definisce “protetti”. Tra l’altro, per verificare quale sia l’effettivo livello di “garanzia occupazionale”, è sufficiente verificare la sproporzionata discrasia esistente tra la reale entità dell’ultima crisi economica e l’enorme numero di lavoratori espulsi dalle aziende “in suo nome”. Piuttosto – fatto salvo il riconoscimento della dipendenza economica a favore di alcune centinaia di migliaia di lavoratori qualificati come “parasubordinati” – non trovo risposta circa la sorte dei restanti componenti i nove milioni di lavoratori che lei stesso ritiene portino “tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno”, in regime di “sostanziale dipendenza”. Nello specifico, sul contratto a termine, rilevo che da nessun passaggio della relazione si evince l’intenzione di ricondurre lo stesso alle norme previgenti il 368/2001; salvo il riferimento a imprecisati limiti di durata complessiva. Lo stesso dicasi rispetto al 1481, che si limita a prevederlo per i lavori stagionali e per i casi di sostituzione di altro lavoratore. Inoltre, lei esclude – a giusta ragione – il ricorso al (nuovo) contratto a tempo indeterminato nei casi di assunzione con contratto a termine di durata non inferiore a tre anni, prorogabile o rinnovabile per una sola volta. Confesso che, in assenza di uno specifico riferimento a “causali oggettive” e conseguenti termini di durata, ben inferiori ai tre – sei anni da lei (eventualmente) previsti, è difficile riscontrare qualche assonanza con la richiamata legge 230/62. Per quanto riguarda quel 95 per cento di giovani interpellati, provi a chiedersi, piuttosto, quale sarebbe stata la risposta qualora – più correttamente, a mio parere – fosse stato chiesto loro di optare tra le garanzie e le tutele di un posto di lavoro “standard” e il suo modello di transizione a un nuovo regime. Al riguardo, è solo il caso di rappresentare che, per un soggetto costretto (dalle vigenti norme) al “digiuno forzato” – in termini di garanzie, diritti e tutele – anche un tozzo di pane raffermo rappresenta una scelta da fare senza alcuna esitazione!

Sull’estensione del nuovo regime nell’area attualmente non protetta – Nel mio progetto il nuovo regime è destinato ad applicarsi non soltanto ai “lavoratori a progetto” e “collaboratori continuativi e coordinati”, ma anche ai lavoratori a partita Iva, in partecipazione, soci di cooperativa di lavoro, ecc., che rientrino nella definizione di lavoratore “economicamente dipendente”: definizione che consente un controllo diretto attraverso i tabulati Inps e dell’Erario, senza bisogno di ispettori, avvocati e procedimenti giudiziari, e soprattutto senza bisogno che sia il lavoratore interessato a proporre ricorso in giudizio; questo garantisce in modo efficacissimo l’effettiva universalità dell’applicazione della norma.
Sulla questione della limitazione dei contratti a termine – Sia il d.d.l. n. 1481 (sperimentazione), sia il d.d.l. n. 1873 (nuovo Codice del Lavoro) stabiliscono espressamente l’elenco dei casi in cui il contratto a termine è ammesso; l’elenco ricalca sostanzialmente quello della legge n. 230/1962. Inoltre il d.d.l. prevede che alla scadenza del termine, se il rapporto non si converte a tempo indeterminato, sia dovuta al lavoratore un’indennità di mancata conversione pari all’indennità di licenziamento: in questo modo si istituisce un efficacissimo disincentivo alla reiterazione di contratti a termine tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore.
Sull’entità della protezione realisticamente estensibile alla generalità dei lavoratori “economicamente dipendenti” – Ma non è ragionevolmente proponibile che il “posto di lavoro standard”, disciplinato come lo è oggi, venga davvero offerto a tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza economica (tant’è vero che – se si esclude una vecchia proposta di Rifondazione comunista, che sembra essere stata lasciata cadere – nessuna forza politica lo propone). Se vogliamo davvero superare il regime attuale di
apartheid fra protetti e non protetti, occorre dunque, senza nulla togliere a chi oggi gode della protezione dell’articolo 18, predisporre un regime di protezione diverso che sia davvero applicabile a tutti coloro che verranno assunti in posizione di sostanziale dipendenza economica da oggi in poi. (p.i.)

Per quanto riguarda, invece, il (diffuso) convincimento che la legge-delega 30/2003 e il suo decreto applicativo [c.d. legge Biagi – n.d.r.] si siano limitati “a disciplinare rapporti di lavoro già esistenti, sia pure con altro nome e regolati in misura meno restrittiva”: all’uopo, sono necessarie due premesse. Attraverso la prima, attesto di appartenere a quella corrente di pensiero secondo la quale non è sufficiente “derubricare” e/o “legittimare” un comportamento scorretto o, addirittura, un reato, per poterne – in seguito – disconoscere il carattere riprovevole. Con la seconda, ribadisco che la legge n. 30/2003 e il d. lgs. 276/03 hanno prodotto, a mio avviso, ulteriore precarietà e accentuato il fenomeno che lei definisce di “apartheid”.

Ma quest’ultima non dovrebbe essere una “premessa”, bensì semmai la conclusione dell’analisi. Invece, proprio l’analisi porta a concludere in senso esattamente contrario. Nelle mie osservazioni al primo documento di R. Fioretti io lo avevo invitato a indicare anche un solo rapporto di lavoro precario che sia stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge Biagi e che non preesistesse ad essa, con lo stesso nome o un nome diverso; e a indicare anche un solo caso in cui quella legge sia intervenuta ad allentare la disciplina di un rapporto di lavoro precario. Nella parte del documento che segue R. Fioretti si propone di rispondere a questa mia “sfida”; ma proprio questa sua risposta conferma il mio assunto.

Procedendo per punti e in estrema sintesi, le cito alcuni esempi di arretramento delle condizioni dei lavoratori in ragione delle nuove norme:

a) Il contratto di lavoro ripartito (job sharing)
E’ solo il caso di rilevare che, a parte un riferimento in una circolare ministeriale (nr. 43 del 7 aprile 1998), trattasi di una normativa ex novo. Particolarmente odiosa appare la previsione secondo la quale, salvo diversa intesa tra le parti(!), nell’ipotesi di dimissioni o di licenziamento di uno dei due soggetti coobbligati, si estingue – automaticamente – il vincolo contrattuale per entrambi; lo stesso accade nel caso in cui entrambi i lavoratori siano nell’impossibilità di offrire la prestazione. In un solo colpo, si produce un vulnus alla garanzia del posto di lavoro in seguito ad un’eventuale contemporaneità di assenza per malattia, infortunio o maternità!

Il job sharing non è una forma di lavoro precario: è una clausola del contratto di lavoro che non incide sulla sua durata, bensì sulla disciplina dell’estensione e collocazione temporale della prestazione nell’arco della giornata, della settimana, del mese o dell’anno. Più precisamente, questa clausola consente a due lavoratori di suddividersi tra loro il tempo di lavoro in assoluta libertà. Si tratta dunque di una forma di organizzazione del tempo di lavoro che dà al prestatore una grande libertà di auto-organizzazione. La disciplina di questa fattispecie contenuta nella legge Biagi corrisponde esattamente, parola per parola, a quella contenuta nella circolare del ministro Treu del 1998: quella forma di organizzazione del tempo di lavoro era dunque praticabile – e praticata, sia pure in un numero di casi molto esiguo – anche prima del 2003. Non mi risulta, comunque, che dopo l’entrata in vigore della legge la diffusione di questa fattispecie sia aumentata in misura rilevante.  (p.i.)

b) Contratto di lavoro intermittente (job on call)
Rilevo, in primo luogo, che la sentenza della Corte Costituzionale nr. 210/92 aveva già valutato illegittimo il part-time “a chiamata”. Il Legislatore ha (colpevolmente) omesso di prevedere alcuna sanzione a carico di quei datori di lavoro che dovessero ricorrere al lavoro intermittente al di fuori delle ipotesi previste o violarne i divieti. In modo assolutamente contraddittorio con la natura del provvedimento, tutte le attività previste dal Regio Decreto 6 dicembre 1923, nr. 2657, possono essere interessate dalla stipula di un contratto di lavoro intermittente, indipendentemente dal carattere intermittente o discontinuo della prestazione!

La possibilità di reiterazione nel tempo del contratto di lavoro a termine di brevissima durata era prevista anche dalla legge n. 230/1962 (la quale, addirittura, lo consentiva senza imporne la forma scritta, quando la durata fosse inferiore a 12 giorni): anche prima della legge Biagi vi si faceva diffusamente ricorso, per esempio, quando si ingaggiavano dei camerieri per dei banchetti, oppure delle hostess per dei convegni, o in occasioni simili. La legge Biagi non ha dunque introdotto questa fattispecie, ma si è limitata ad attribuirle un nome nuovo e a regolarla in modo più restrittivo rispetto alla disciplina precedente.

c) Somministrazione di lavoro
Non è stato riproposto, così com’era previsto dalla legge Treu, il divieto di fornitura di mano d’opera per le attività lavorative ritenute pericolose. Il lavoratore assunto dal somministratore con contratto a tempo indeterminato ha due “spade di Damocle” sul proprio capo. Infatti, oltre l’eventuale licenziamento per “giustificato motivo oggettivo” – legato a cause inerenti all’agenzia di somministrazione – deve temerne un secondo, della stessa natura, nel caso in cui venga meno il contratto di somministrazione a tempo indeterminato. Un’altra “chicca” è rappresentata dal fatto che i lavoratori “somministrati” sono esclusi dal computo delle soglie utili ai fini dell’applicazione di clausole di tutela a favore dei lavoratori o di obblighi dei datori di lavoro, ma, contemporaneamente (e inspiegabilmente), possono essere “conteggiati” ai fini della partecipazione delle imprese a gare per l’assegnazione di appalti pubblici.

Il lavoro temporaneo tramite agenzia è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge Treu del 1997: non è stata dunque la legge Biagi a introdurre questo tipo legale di contratto di lavoro, né ad aumentare il novero casi in cui esso è ammesso. La novità portata dalla legge Biagi è stata soltanto lo staff leasing, che è una forma di organizzazione del lavoro nella quale il rapporto è a tempo indeterminato, con applicazione dell’articolo 18 dello Statuto e, addirittura, con divieto di licenziamento collettivo: lo staff leasing non  può dunque in alcun modo qualificarsi come un rapporto di lavoro precario. (p.i.)

d) Contratto di inserimento
Stando alle dichiarazioni, avrebbe dovuto sostituire la disciplina dei contratti di formazione e lavoro. In realtà, si tratta di tutt’altra cosa. Tra l’altro, la legge 30/2003 prevedeva “il riordino dei contratti a contenuto formativo”, non il superamento dei cfl, né, tanto meno, l’invenzione della nuova tipologia contrattuale.
Nel merito, è sufficiente evidenziare che non è un “contratto a causa mista” (la formazione è espressamente prevista come “eventuale”), non è riservato ai giovani, è reiterabile presso un diverso datore di lavoro e, soprattutto, si applica anche nei casi di “reinserimento” nel mondo del lavoro, autorizzando una sorta di sotto-salario anche per lavoratori già dotati di ampia esperienza lavorativa e professionale. L’unico punto in comune con i cfl è il sottoinquadramento di due livelli. Per i portatori di handicap la durata massima è pari a 36 mesi e – stante il mancato divieto di reiterabilità presso un diverso datore di lavoro – non è difficile immaginare la (peregrina) sorte prospettata a danno dei soggetti più deboli del mercato del lavoro.

L’affermazione secondo cui il “contratto di inserimento” sarebbe cosa sostanzialmente diversa dal vecchio “contratto di formazione e lavoro a basso contenuto formativo” non mi sembra sostenibile: si tratta sostanzialmente della stessa cosa, sia pure disciplinata in modo marginalmente diverso. Non si può davvero sostenere che questa figura abbia allargato le possibilità di assunzione in posizione precaria rispetto alla situazione precedente, che vedeva una utilizzazione larghissima del c.f.l. nella sua versione “minimalista”. (p.i.)

e) Lavoro a progetto
“Salvo quanto diversamente concordato nel contratto individuale, il collaboratore a progetto può prestare la propria opera a favore di più committenti”! Questo che appare come un punto in positivo (per il lavoratore) è, invece, un passo indietro rispetto alle ex Co.co.co. Infatti, secondo una ricorrente prassi, il collaboratore che concedeva la “esclusiva” a favore di un unico committente, percepiva una maggiorazione del compenso. La nuova norma, in concreto, lascia al committente la possibilità di pretendere – in sede di stesura del contratto – l’esclusiva della prestazione; senza alcun obbligo di compensare in modo adeguato tale disponibilità. Rispetto al recesso: l’aver previsto che le parti possono stabilire (con il “rapporto di forze” che ben conosciamo) il recesso prima della scadenza per giusta causa ovvero secondo diverse causali o modalità, incluso il preavviso, equivale a lasciare il collaboratore “in balia” del committente.

Resta il fatto che, prima della legge Biagi, non vi era alcun limite alla possibilità di ingaggio di un lavoratore con un contratto di collaborazione autonoma continuativa. In questo campo, dunque, la legge del 2003 ha introdotto limiti e regole dove prima non ce n’era nessuna. Tanto è vero, che il ricorso a questa fattispecie contrattuale ha subito una netta flessione in conseguenza dell’applicazione della nuova normativa.

f) Somministrazione di lavoro per soggetti svantaggiati e disabili
L’art. 14 del 276/03 appariva, a prima vista, una riproposizione di quanto previsto all’art. 12 della legge 68/99, ma, in effetti, non è così; le nuove norme rappresentano un indubbio arretramento.
Infatti, a differenza di quanto previsto in precedenza, al disabile “parcheggiato” presso una cooperativa sociale, è corrisposta una retribuzione riferita ai contratti collettivi di categoria applicati dalle cooperative sociali (con livelli retributivi notoriamente più bassi), piuttosto che al contratto collettivo (più favorevole) applicato dall’azienda di provenienza.
Attraverso la previgente disciplina, il lavoratore era assunto a tempo indeterminato – dal datore di lavoro cui spettava rispettare l’obbligo della c.d. “riserva di legge” – e successivamente “parcheggiato” presso una cooperativa sociale. La nuova disposizione non prevede più (quale pre-condizione) l’assunzione a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro “obbligato”.
L’art. 12 della legge 68/99 vietava – espressamente – che un soggetto disabile potesse essere interessato da un secondo “parcheggio” presso una cooperativa sociale. Il 276/2003 non prevede lo stesso divieto; il che, evidentemente, nel silenzio della legge, equivale a consentirlo!

In questo campo contano i risultati: la nuova norma ha, o no, aumentato le possibilità effettiva di accesso al lavoro per i disabili?  (p.i.)

g) Cessione di ramo d’azienda
La nuova formulazione dell’art. 2112, comma 5, del c.c. ha escluso la necessità che l’autonomia organizzativa dell’attività da trasferire sia precedente e conservi la sua identità all’atto del trasferimento, come, invece, era richiesto dalla previgente disciplina. A mio avviso, l’eliminazione del requisito della “preesistente autonomia funzionale” si presta a un’ampia serie di operazioni poco trasparenti.

La mia critica a R. Fioretti sulla legge Biagi riguardava soltanto la sua affermazione secondo cui quella legge avrebbe aumentato il precariato nel nostro Paese. La norma sulla cessione di ramo d’azienda si colloca in tutt’altro capitolo: ne parleremo un’altra volta, per non appesantire eccessivamente questo già lungo scambio. (p.i.)

h) Part-time
E’ stata abolita la possibilità che la contrattazione collettiva potesse regolare il c. d. “consolidamento”.
Per quanto attiene al lavoro “supplementare”, il lavoratore, in pratica, non avrà scelta. Se previsto dal contratto di lavoro, potrà dichiararsi disponibile oppure rifiutare. Nella seconda ipotesi, però, se è vero che il datore di lavoro non potrà licenziarlo, è altrettanto vero che non è più escluso – come invece espressamente vietato dalle precedenti norme – che il datore di lavoro possa adottare un provvedimento disciplinare.
La nuova normativa ha introdotto le c.d. “clausole elastiche”, espressamente vietate dalla previgente normativa. E’ stato abrogato il “diritto di ripensamento”. Le nuove norme non prevedono più che il lavoratore, in caso di trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, possa essere assistito da un rappresentante sindacale che ne tuteli i diritti e verifichi che si tratta di una scelta realmente condivisa dalle parti. Quelle che una volta, per i lavoratori in regime di part-time “verticale”, erano considerate prestazioni di lavoro “straordinario”, sono state declassate a lavoro “supplementare”; con evidenti (e notevoli) conseguenze economiche a danno dei lavoratori.

Vale la stessa osservazione fatta sopra: quello del part-time è tema del tutto diverso da quello del lavoro precario. (p.i.) 

Mi auguro, con questo, di non rientrare tra coloro che dicono sciocchezze. Mi accontenterei di essere tra quanti, pur fermamente convinti della bontà delle proprie posizioni, sono altrettanto consapevoli della necessità positiva del confronto e del pluralismo delle idee.

A me sembra che, almeno per quel che riguarda la legge Biagi, questo confronto confermi la mia tesi: cioè che quella legge non ha introdotto alcuna forma nuova di lavoro precario, né ha allargato – bensì ha semmai ristretto – la possibilità di far ricorso a quelle preesistenti. (p.i.) 

Tornando all’ultima sua osservazione, immaginavo fosse scontato il (mio) riferimento a quanti, potenzialmente (futuri) titolari di alcuni diritti e tutele – in virtù delle vigenti disposizioni – ne sarebbero stati privati attraverso l’eventuale introduzione delle norme previste dal ddl 1481.
Tra l’altro, a questo proposito – mi correggerà se sbaglio – attraverso la relazione di accompagnamento, nonché l’art. 2, comma 4, lettera b), del ddl, rilevavo che il c.d. “contratto di transizione” – sebbene attraverso lo strumento referendario – potesse essere “esteso ai lavoratori già in forza presso l’azienda o le aziende interessate”.

Se la maggioranza dei lavoratori di un’azienda opta per il nuovo regime, non essendovi per nulla obbligata, vuol dire che in quell’azienda è maggioritaria l’opinione secondo cui il nuovo regime è migliore del vecchio. La sperimentazione serve anche a registrare questo dato e far riflettere su di esso anche chi ritiene che la protezione offerta dall’articolo 18 St. lav. sia la migliore possibile in assoluto. (p.i.)

Mi scuso per l’ampiezza della contro-replica, ma le sue osservazioni meritavano di essere adeguatamente approfondite. Con immutata stima, la saluto
Renato Fioretti

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