TUTTE LE DOMANDE E OBIEZIONI PIU’ FREQUENTI, CON LE RELATIVE RISPOSTE
Sono qui raccolte e sintetizzate le principali domande e obiezioni di lettori ed elettori sul progetto per la transizione a un nuovo sistema di protezione della stabilità del lavoro e il superamento del mercato duale, seguite dalle mie risposte. A queste si aggiungono le mie risposte alle osservazioni e obiezioni di Donata Gottardi e di Luigi Mariucci. Per i link alla bozza di disegno di legge e a tutti gli altri documenti concernenti il progetto, disponibili nel sito, vai al Portale della Flexsecurity
Indice delle frequent asked questions:
1. Riforme come questa non si possono fare in tempi di crisi e recessione. Non è meglio rinviare il discorso a tempi migliori?
2. Il problema è urgente. I tempi della riforma non rischiano di essere troppo lunghi?
3. Il progetto comporta dei costi e dei rischi per i datori di lavoro. Che cosa può indurre l’impresa ad accollarseli compiendo questa scelta?
4. Ma la convenienza per le imprese medio-grandi deve essere valutata anche in riferimento ai rapporti di lavoro precario cui esse, con il “contratto di transizione” rinunciano. In quest’area, non è più conveniente per loro il vecchio regime?
5. Come può il nuovo regime convenire alle imprese di piccole dimensioni, cui oggi non si applica l’articolo 18?
6. Non c’è il rischio che un gruppo di imprese sia disponibile a stipulare il contratto di transizione, ma non siano disponibili i sindacati?
7. Non è sbagliato che il contratto di transizione possa essere stipulato anche da un sindacato minoritario?
8. Con il “contratto di transizione”, ai nuovi rapporti di lavoro si applicherà un regime diverso rispetto ai vecchi: non è anche questa una forma di dualismo del tessuto produttivo?
9. Non è eccessivo il divieto di nuove collaborazioni autonome continuative che viene imposto con il “contratto di transizione”?
10. Imporre un “contratto unico” di lavoro dipendente non rischia di limitare la possibilità di scelta di imprese e lavoratori, finendo col produrre effetti occupazionali negativi?
11. Perché i nuovi enti bilaterali dovrebbero funzionare meglio di quelli attuali?
12. Perché nel disegno di legge è lasciata indefinita la disciplina dei nuovi rapporti di lavoro, per gli aspetti diversi dal licenziamento e dalla contribuzione pensionistica?
13. Quali saranno spazio e ruolo delle agenzie di somministrazione di lavoro nel nuovo regime introdotto dal contratto di transizione?
14. Come si concilia la nuova disciplina dei licenziamenti economici con la disciplina comunitaria delle riduzioni di personale?
15. L’esenzione della motivazione economica del licenziamento dal controllo giudiziale è compatibile con i principi comunitari e costituzionali vigenti in questa materia?
16. Se la funzione del giudice, nei casi di licenziamento non disciplinare, sarà limitato alla repressione delle discriminazioni illecite, non c’è il rischio che il lavoratore ne risulti indebolito, gravando su di lui l’onere della prova del motivo discriminatorio?
17. Perché attribuire tanta importanza al vincolo per l’impresa del controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo del licenziamento, dal momento che i casi giudiziali su questa materia sono poche migliaia ogni anno, e nella metà circa dei casi si risolvono con una sentenza favorevole all’impresa stessa?
18. Quali sono le differenze principali tra questo progetto e quello del “contratto unico” di Tito Boeri e Pietro Garibaldi?
1. RIFORME COME QUESTA NON SI POSSONO FARE IN TEMPO DI CRISI E RECESSIONE. NON E’ MEGLIO RINVIARE IL DISCORSI A TEMPI MIGLIORI?
E’ vero il contrario. E’ proprio in un periodo di crisi economica, quindi di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità. Proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario. D’altra parte, per le imprese che sottoscriveranno il “contratto di transizione” il costo del lavoro subordinato non aumenterà affatto, poiché il contributo medio dello 0,5% destinato al finanziamento dell’ente incaricato del trattamento di disoccupazione e ricollocazione sarà compensato dalla fissazione al 30% del contributo pensionistico per tutti i nuovi lavoratori assunti in posizione di “dipendenza economica”.
2. IL PROBLEMA È URGENTE. I TEMPI DELLA RIFORMA NON RISCHIANO DI ESSERE TROPPO LUNGHI?
Con una maggioranza ben decisa e con le idee chiare, i tempi di attuazione del progetto di cui stiamo discutendo non sarebbero così lunghi. In Parlamento oggi anche leggi complesse vengono varate in due o tre mesi; quanto alla negoziazione fra gruppi di imprese e sindacati, essa potrebbe procedere già in parallelo rispetto all’iter parlamentare della legge. Vale comunque anche in questo campo il vecchio apologo: “In un giardino assolato il signore disse al giardiniere: ‘qui fa molto caldo: pianta un albero’. Il giardiniere obiettò: ‘un albero ci metterà almeno dieci anni a dare ombra’. Il signore gli disse: ‘appunto: non c’è da perdere un minuto’”.
3. IL PROGETTO COMPORTA DEI COSTI E DEI RISCHI PER I DATORI DI LAVORO. CHE COSA PUÒ INDURRE L’IMPRESA AD ACCOLLARSELI COMPIENDO QUESTA SCELTA?
Il trattamento di disoccupazione secondo il “modello danese”, previsto nel progetto, ammonta complessivamente, nel caso più sfortunato nel quale il lavoratore rimanga disoccupato per tutto il quadriennio, al (90% + 80% + 70% + 60% =) 300% della sua retribuzione annua lorda, cioè tre annualità; poiché, però, su questa erogazione non grava la contribuzione previdenziale, il costo che ne consegue a carico dell’ente bilaterale o consorzio (quindi a carico delle imprese firmatarie del “contratto di transizione”) è pari a poco più di due annualità. Anche aumentato dell’indennità di licenziamento (una mensilità per anno di anzianità di servizio), oggi questo è considerato, generalmente, un costo congruo ‑ e al tempo stesso accettabile ‑ per l’incentivazione all’esodo di un dipendente da parte di un’impresa cui si applichi l’articolo 18 dello Statuto. Il “modello danese”, però, coniugando strettamente il sostegno del reddito del lavoratore con iniziative efficaci di riqualificazione mirata e assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, consente di fare affidamento su una durata media dei periodi di disoccupazione molto inferiore a quattro anni: quanto più, dunque, l’ente bilaterale o consorzio saprà essere efficiente, tanto più le imprese interessate godranno di un vantaggio rispetto ai costi attuali dell’aggiustamento industriale. Per esempio, se si riuscirà a contenere la durata media dei periodi di disoccupazione entro i tre mesi, il costo medio della riduzione o sostituzione di un dipendente con sei anni di anzianità di servizio sarà pari a 8,7 mensilità della sua retribuzione: di molto inferiore rispetto al firing cost oggi ritenuto congruo e accettabile.
4. MA LA CONVENIENZA PER LE IMPRESE MEDIO-GRANDI DEVE ESSERE VALUTATA ANCHE IN RIFERIMENTO AI RAPPORTI DI LAVORO PRECARIO CUI ESSE, CON IL “CONTRATTO DI TRANSIZIONE” RINUNCIANO. IN QUEST’AREA, NON È PIÙ CONVENIENTE PER LORO IL VECCHIO REGIME?
È vero: i rapporti di “lavoro a progetto”, o comunque di collaborazione autonoma continuativa, oggi consentono la soppressione del posto o la sostituzione del lavoratore con un costo ridottissimo o nullo. Qui la convenienza, nella logica del progetto, deve nascere da una combinazione di “bastone e carota”, dove la “carota” è costituita dalla riduzione al 30% del contributo pensionistico per tutti i lavoratori assunti nel nuovo regime di protezione, dall’aumento a 6 mesi della durata del periodo di prova e dal costo davvero molto ridotto del licenziamento del lavoratore con anzianità di servizio di soli uno o due anni; il “bastone”, viceversa, deve essere costituito da una applicazione finalmente severa e generalizzata dei limiti di durata complessiva dei contratti a termine, dei limiti assai restrittivi posti dalla legge Biagi per il “lavoro a progetto” (circolari Damiano n. 16/2006 e n. 4/2008) e del divieto di simulazione del lavoro autonomo anche nella forma della “partita Iva”.
5. COME PUÒ IL NUOVO REGIME CONVENIRE ALLE IMPRESE DI PICCOLE DIMENSIONI, CUI OGGI NON SI APPLICA L’ARTICOLO 18?
Se anche accadesse che, in una prima fase, il “contratto di transizione” venisse stipulato soltanto da imprese cui si applica l’articolo 18 dello Statuto, non per questo la sperimentazione del nuovo regime di protezione sarebbe meno utile: essa preparerebbe comunque il terreno a una generalizzazione di quel regime, consentendo il superamento del “tabù dell’articolo 18″ e l’acquisizione del know-how necessario per il buon funzionamento dei servizi di riqualificazione e ricollocazione. Ma basterebbe che lo Stato si facesse carico della contribuzione (0,5% sul monte salari) gravante sulle imprese con meno di 16 dipendenti, per rendere vantaggioso il nuovo regime anche per queste, tenuto conto che il progetto dimezza, in questo settore, il preavviso e l’indennità di licenziamento: questa previsione è inserita alla fine dell’articolo 4 del disegno di legge. Se questa sarà la scelta del legislatore, poiché presumibilmente non saranno molte le piccole imprese che in questa fase stipuleranno il “contratto di transizione”, l’onere complessivo per l’Erario sarà, nella fase iniziale, ridottissimo: suscettibile, quindi, di essere ampiamente coperto dal maggior gettito prodotto dal prevedibile aumento delle assunzioni. Nell’ipotesi del tutto astratta in cui il nuovo regime fosse da subito applicabile a tutti i nuovi assunti delle imprese con meno di 16 dipendenti (le quali oggi danno lavoro a poco più di 3 milioni di lavoratori), l’onere complessivo nel secondo anno sarebbe stimabile in circa mezzo miliardo di euro annui.
6. NON C’È IL RISCHIO CHE UN GRUPPO DI IMPRESE SIA DISPONIBILE A STIPULARE IL CONTRATTO DI TRANSIZIONE, MA NON SIANO DISPONIBILI I SINDACATI?
Considerato che il “contratto di transizione” non tocca gli interessi dei dipendenti già in forza presso le imprese firmatarie, il progetto consente che esso venga stipulato anche con un solo sindacato, purché non si tratti di un “sindacato di comodo” (vietato dall’articolo 17 dello Statuto). Poiché il nuovo regime è nettamente più vantaggioso per i new entrants rispetto al vecchio, non sarà difficile trovare almeno un sindacato serio capace di dare loro voce e rappresentanza, ancorché eventualmente minoritario tra i dipendenti già in forza.
7. NON È SBAGLIATO CHE IL CONTRATTO DI TRANSIZIONE POSSA ESSERE STIPULATO ANCHE DA UN SINDACATO MINORITARIO?
Non è sbagliato, perché questo contratto collettivo non toglie nulla ai lavoratori già in forza: non occorre, dunque, alcuna verifica di rappresentatività rispetto a questi. D’altra parte, la valutazione positiva circa il nuovo regime per i new entrants è già data in via generale dal legislatore. La previsione che il passaggio al nuovo regime avvenga per mezzo di un contratto collettivo risponde alla necessità di coinvolgere almeno un sindacato nella costituzione dell’ente cui verrà affidata la gestione dell’indennità di disoccupazione e dei servizi di riqualificazione e ricollocamento.
8. CON IL “CONTRATTO DI TRANSIZIONE”, AI NUOVI RAPPORTI DI LAVORO SI APPLICHERÀ UN REGIME DIVERSO RISPETTO AI VECCHI: NON È ANCHE QUESTA UNA FORMA DI DUALISMO DEL TESSUTO PRODUTTIVO?
Sì; ma il nuovo “dualismo” è destinato a essere gradualmente superato, via via che i nuovi assunti sostituiranno i vecchi. Inoltre ‑ e soprattutto ‑ il vecchio sistema duale separa i lavoratori “di serie A”, nettamente privilegiati, da quelli “di serie B”, nettamente svantaggiati; con il “contratto di transizione”, invece, questa “serie B” viene drasticamente abolita (perché le imprese rinunciano ad assumere con contratti di “lavoro a progetto” o, salve poche eccezioni, con contratti a termine) e non è facile stabilire quale sia il regime migliore per il lavoratore, tra il vecchio e il nuovo. Dà sicurezza maggiore, in caso di licenziamento per motivi economici, l’articolo 18 (con l’alea del giudizio e il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano se il licenziamento verrà convalidato dal giudice) o il nuovo regime, con l’indennizzo certo a carico dell’impresa, la garanzia del trattamento di disoccupazione “alla danese” e un servizio di outplacement di buona qualità? E’ davvero difficile sostenere che sia complessivamente migliore il primo (rinvio in proposito al mio scritto “La stabilità del lavoro e il valore dell’eguaglianza”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2005). Non è irrealistico prevedere che, quando il nuovo regime incomincerà a essere concretamente sperimentato, anche i vecchi dipendenti si renderanno conto che il sistema “alla danese” offre una protezione migliore; e chiederanno ai loro sindacati di negoziare l’estensione del nuovo regime a tutta l’azienda. Dove questo accadrà, il superamento del dualismo sarà immediato.
9. NON È ECCESSIVO IL DIVIETO DI NUOVE COLLABORAZIONI AUTONOME CONTINUATIVE CHE VIENE IMPOSTO CON IL “CONTRATTO DI TRANSIZIONE”?
Il “contratto di transizione” estende la nuova disciplina del licenziamento a tutti i nuovi assunti in posizione di dipendenza economica, ma consente che ne rimangano esclusi i collaboratori autonomi che godano di un reddito annuo superiore a 40.000 euro. Al di sotto di questa soglia di reddito, mi sembra ragionevole che chi lavora in posizione di sostanziale dipendenza economica goda della nuova protezione; al di sopra di quella soglia, la disciplina applicabile resta quella previgente: e anche questo mi sembra ragionevole.
La riforma non impone affatto un unico tipo contrattuale, ma soltanto uno standard minimo universale di protezione della stabilità per tutti coloro che lavorano in una posizione di sostanziale dipendenza economica. Nel “guscio” di questo standard universale inderogabile possono trovare posto i tipi contrattuali più diversi: dal lavoro subordinato tradizionale al tele-lavoro, dal part-time al job-sharing, dall’apprendistato al lavoro in staff leasing, dal lavoro cooperativo al lavoro in partecipazione. Questo è il motivo per cui preferisco non utilizzare il termine “contratto unico”, col quale si indica comunemente questa strategia di riforma.
11. PERCHÉ I NUOVI ENTI BILATERALI DOVREBBERO FUNZIONARE MEGLIO DI QUELLI ATTUALI?
L’esperienza recente di molti enti bilaterali è insoddisfacente, è vero; ma è anche vero che i vecchi enti bilaterali cui questo giudizio negativo si riferisce forniscono quasi esclusivamente servizi di formazione professonale, in una situazione nella quale la qualità dei servizi stessi non è, di fatto, soggetta ad alcun controllo (nessun valutatore, per esempio, fornisce l’indice di andamento gestionale di questi enti costituito dal tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di chi ne ha fruito). Questi vecchi enti operano, dunque, senza alcun vincolo di efficienza e produttività. Gli enti bilaterali previsti nel progetto qui in discussione, invece, saranno soggetti a un vincolo molto stringente: se i loro dirigenti saranno scelti secondo logiche di lottizzazione, o comunque secondo criteri diversi da quello della competenza professionale, essi funzioneranno male e questo si tradurrà immediatamente in periodi di disoccupazione più lunghi, quindi in costi più alti per le imprese finanziatrici. Saranno pertanto queste ultime a controllare con grande attenzione che l’ente bilaterale sia gestito bene; al sindacato soltanto il compito di controllare che il rigore e l’efficienza nella gestione dell’ente non si trasformino in vessazione ‑ o anche soltanto eccesso di severità ‑ nei confronti dei lavoratori che ad esso sono affidati.
Anche per tener conto di questa obiezione, comunque, il disegno di legge prevede l’alternativa tra ente bilaterale e consorzio tra imprese: sarà dunque il “contratto di transizione” a scegliere tra l’una e l’altra forma dell’ente di servizio.
Volutamente non è stata inserita nella bozza del disegno di legge una disciplina dettagliata dei rapporti di lavoro con i neo-assunti: questo, infatti, avrebbe appesantito molto il testo legislativo, riducendone la comprensibilità immediata, quindi compromettendone in parte l’efficacia sul piano mediatico. D’altra parte, la bozza vuole essere soltanto un canovaccio sul quale deve avviarsi una sorta di “negoziato politico” tra rappresentanti degli imprenditori e rappresentanti dei lavoratori: a loro il compito di trovare un punto di equilibrio praticabile ed equo tra il “niente” della protezione degli attuali “collaboratori autonomi” e gli eccessi normativi che oggi caratterizzano il lavoro subordinato. Dovrà, comunque, essere tenuto fermo il principio fondamentale di unificazione dello standard minimo applicabile a tutti i neo-assunti: tutto ciò che si riterrà costituire tutela irrinunciabile per il lavoratore subordinato dovrà essere esteso al collaboratore autonomo in posizione di sostanziale dipendenza; e, viceversa, tutto ciò che si riterrà eccessivo, come standard minimo, per quest’ultimo dovrà essere considerato eccessivo come standard minimo anche per tutti gli altri.
13. QUALI SARANNO SPAZIO E RUOLO DELLE AGENZIE DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO NEL NUOVO REGIME INTRODOTTO DAL CONTRATTO DI TRANSIZIONE?
Tutto l’impianto della riforma – e quindi anche questo aspetto assai rilevante della questione – dovrà essere oggetto di un negoziato tra rappresentanti degli imprenditori e rappresentanti dei lavoratori: in quella sede dovranno essere ben definiti i casi in cui la somministrazione temporanea di lavoro resta ammessa. Nessun limite, a mio modo di vedere, dovrebbe essere posto nel caso in cui il lavoratore sia assunto dall’agenzia a tempo indeterminato; per lo stesso motivo ritengo che nessun limite dovrebbe essere posto alla possibilità di somministrazione a tempo indeterminato, o staff leasing (una forma di organizzazione del lavoro prevista dalla legge Biagi, abolita nel dicembre 2007, ma probabilmente destinata a essere presto ripristinata: v. in proposito i miei scritti “Appalto di servizi e staff leasing: una distinzione sempre meno praticabile, e “Le nuove forme del decentramento produttivo”): in questi casi si realizza una forma assai avanzata di coniugazione tra flessibilità per l’impresa utilizzatrice e sicurezza per il lavoratore, data dal rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia fornitrice. Aggiungo infine che, per ridurre al minimo i costi del sostegno del reddito dei lavoratori licenziati, le imprese dovranno necessariamente avvalersi del know-how delle migliori agenzie private di somministrazione, di collocamento e di outplacement: per queste si apriranno dunque spazi nuovi rilevantissimi di valorizzazione del loro patrimonio di esperienza e professionalità nel campo dei servizi al mercato del lavoro.
14. COME SI CONCILIA LA NUOVA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI ECONOMICI CON LA DISCIPLINA COMUNITARIA DELLE RIDUZIONI DI PERSONALE?
Non c’è alcuna incompatibilità tra la nuova disciplina proposta e quella comunitaria dei licenziamenti collettivi: là dove i contratti di lavoro che vengono risolti superino le soglie fissate dalla direttiva (cioè oltre i 4 licenziamenti per motivi economici od organizzativi entro il lasso di 120 giorni), le imprese con più di 15 dipendenti dovranno comunque adempiere l’onere della procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e in sede amministrativa. La necessaria coniugazione della nuova disciplina con quella comunitaria è precisata, nella bozza di disegno di legge, dal sesto comma dell’art. 7.
Quanto al nostro ordinamento costituzionale, il principio sempre ribadito dalla giurisprudenza è quello della insindacabilità delle scelte aziendali economico-organizzative; di fatto questo principio viene molto sovente disapplicato dai giudici del lavoro, che finiscono col controllare quelle scelte in modo assai penetrante, ma è incostituzionale semmai questa prassi giudiziale: non una norma legislativa ordinaria che confermi l’insindacabilità. Quanto all’ordinamento internazionale (O.I.L.) e a quello comunitario, essi vincolano gli ordinamenti nazionali soltanto a disporre un indennizzo a favore del lavoratore che risulti licenziato senza motivo giustificato; poiché il nostro progetto dispone l’indennizzo a favore di tutti i lavoratori che subiscono il licenziamento per motivi economico-organizzativi, questo trattamento non può evidentemente considerarsi deteriore rispetto alle norme sovranazionali citate (per una argomentazione più compiuta su questo punto rinvio al mio saggio “La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2006).
17.1. L’analisi economica del diritto insegna che Il numero dei casi giudiziali dice pochissimo sul numero effettivo dei casi in cui il conflitto di interessi si manifesta: le parti affrontano la controversia giudiziale soltanto quando sperano di poterne trarre un vantaggio. L’esiguo numero di casi non ci dice né quanti imprenditori rinuncino a licenziare sapendo che molto probabilmente perderebbero la causa, né quanti lavoratori rinuncino a impugnare il licenziamento per lo stesso motivo.
17.2. Ancora l’analisi economica del diritto insegna che la percentuale delle sentenze favorevoli a una parte o all’altra, rispetto al totale dei casi giudiziali, tende a collocarsi sempre intorno al 50 per cento: lo scostamento di qualche punto percentuale in un senso o nell’altro non dipende dall’orientamento dei giudici, ma da asimmetrie informative tra le parti circa l’orientamento stesso, oppure da asimmetrie nei costi del giudizio. Anche questo dato, dunque, non dice nulla circa l’influenza esercitata effettivamente dalla norma sostanziale sul comportamento delle aziende e dei lavoratori.
17.3. Tra i giudici del lavoro italiani è molto diffusa l’idea che non sia ammissibile un licenziamento per motivi economici od organizzativi quando il bilancio dell’impresa è in attivo (“è vietato licenziare per aumentare gli utili…”), mentre esso sarebbe ammissibile quando il bilancio è in rosso (“… è consentito licenziare per evitare perdite”). Questa idea fa sì che, di fatto, l’aggiustamento industriale sia – almeno tendenzialmente – consentito non per prevenire tempestivamente la crisi, ma soltanto quando l’impresa è già in crisi.
17.4. Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento si può definire come “una perdita attesa, conseguente alla prosecuzione del rapporto di lavoro, superiore a una certa soglia”, che spetta al giudice stabilire caso per caso. Ora, “provare” una perdita attesa è già di per sé assai problematico, perché comporta sostanzialmente la dimostrazione di un evento futuro: il margine di opinabilità di una tale dimostrazione è sempre molto ampio; l’alea del singolo giudizio è poi aumentata dalla non conoscibilità della “soglia” della perdita attesa che sarà applicata dal singolo giudice nel caso specifico. D’altra parte, il meccanismo disposto dall’art. 18 S. lav. fa sì che basti la soccombenza dell’impresa in uno soltanto dei quattro o cinque gradi del giudizio, all’inizio o alla fine di esso, per determinare costi molto elevati (rinvio in proposito al mio studio “La stabilità del lavoro e il valore dell’uguaglianza”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2005, I): l’imprenditore deve dunque tenere conto non dell’orientamento medio dei giudici, ma di quello più severo nei confronti dell’impresa.
17.5. In ogni caso i tempi operativi di un’impresa e delle sue scelte di aggiustamento industriale oggi devono essere molto più brevi rispetto a quelli di un procedimento giudiziale. Nell’Italia settentrionale un giudizio in materia di licenziamento può richiedere normalmente quattro o cinque anni; nel Mezzogiorno il doppio; ma anche se questi tempi venissero dimezzati essi sarebbero comunque incompatibili con le esigenze di un’impresa sana in una economia moderna.
17.6. Se il g.m.o. di licenziamento si può definire come “perdita attesa superiore a una certa soglia”, il filtro del g.m.o. ben può essere molto efficacemente costituito da un costo predeterminato (il c.d. firing cost), imposto all’imprenditore per l’attuazione di quella scelta di aggiustamento industriale, restando affidato al giudice il compito di accertare – nel caso di impugnazione da parte del lavoratore – che il vero motivo del licenziamento non sia costituito da un intendimento discriminatorio o di mero capriccio (v. in proposito la risposta alla domanda n. 16).
17.7. Tutte queste ragioni militano a favore della scelta di un nuovo meccanismo di controllo del g.m.o. di licenziamento, diverso da quello tradizionale, fondato sulla combinazione del firing cost con il controllo giudiziale sull’eventuale motivo illecito (v. in proposito il progetto elaborato dagli economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole per il Governo francese: “Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2004, I, pp. 161-212).
18. QUALI SONO LE DIFFERENZE SOSTANZIALI FRA QUESTO PROGETTO E QUELLO DEL “CONTRATTO UNICO” PROPOSTO DA TITO BOERI E PIETRO GARIBALDI?
Le più importanti sono due: i) il progetto di Boeri e Garibaldi prevede soltanto una flessibilizzazione del rapporto di lavoro subordinato tradizionale, ma lascia in vita le vecchie forme di lavoro precario; ii) la flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti. Per una comparazione più approfondita, estesa anche al progetto di “contratto unico” di Marco Leonardi e Massimo Pallini, v. il mio saggio “Scenari di riforma del mercato del lavoro”, in ItalianiEuropei, 2008.