LA CONDIZIONE DEI PRATICANTI E IL COLLEGAMENTO TRA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA E AVVOCATURA E’ UN TEMA CHE NON EMERGE DAL DIBATTITO PARLAMENTARE, MA CHE SAREBBE FONDAMENTALE PER UNA BUONA RIFORMA
Scritto di Alessio Fionda, ricercatore in politiche del lavoro e della formazione – ottobre 2010
L’attuale meccanismo di reclutamento degli avvocati è efficiente ed efficace? La formazione e la crescita professionale della classe forense sono adeguate alla complessità del sistema giustizia del nostro Paese? La riforma in approvazione definitiva in Senato quali miglioramenti apporterà a una situazione ormai esacerbata?
È noto che il mercato del lavoro della professione forense sia in grave crisi da molti anni a causa della latitanza d’interventi regolatori in grado di cambiare i meccanismi di un sistema ormai inceppati[1]. Il dibattito tende però a concentrarsi sull’elevato numero degli avvocati[2] considerandolo come un elemento d’elevata criticità di un sistema che vedrebbe l’offerta maggiore della domanda di lavoro, dimenticando, ad esempio, che prima di diventare avvocati occorre essere innanzitutto praticanti.
La precarietà dei praticanti
Per analizzare la situazione dei tirocinanti avvocati tuttavia, mancano alcuni elementi di cognizione essenziali. Nella fattispecie, un primo elemento di gravità è il fatto di non avere una fotografia certa sul loro numero e soprattutto sulla loro composizione[3]. Ad una stima stiamo parlando di un numero che oscilla intorno alle 30.000[4] o 40.000 unità[5]. Una forza dalle potenzialità produttive, di certo, non irrilevante.
Un secondo elemento di gravità, questo invece ben conosciuto, è la profonda iniquità sociale che caratterizza il processo di pratica legale.
In moltissimi casi, la condizione contrattuale e sociale è peggiore di quella degli stagisti o dei lavoratori con contratti “atipici”. I praticanti, di norma, non hanno un contratto di lavoro regolare e non dispongono di un reddito adeguato al proprio mantenimento.
Coloro che scontano il maggiore svantaggio sono i giovani a basso reddito ovvero che non appartengono ad una famiglia abbiente, che una volta laureati perdono anche le già scarse agevolazioni del diritto allo studio universitario.
Inoltre, professionalmente, i praticanti sono spesso costretti a lunghi lavori di segreteria con scarsa utilità formativa; necessitati a sostenere da sé i costi della propria formazione, in un contesto nel quale non esiste alcun piano di sviluppo professionale.
Ad aggravare la situazione, la profonda precarietà e farraginosità dello stesso esame di stato[6].
I giovani che, in un lasso di tempo così lungo, non possono permettersi di sostenere un simile costo-opportunità[7] ripiegano su altro. Mentre il comparto dei servizi nel Centro Nord può essere in grado di assimilarli, i laureati in legge del Sud Italia si ritrovano a tentare la strada dello studio legale autonomo con scarsi profitti[8] oppure ripiegano sulla Pubblica Amministrazione[9].
Ma il problema non è considerato con la dovuta attenzione dai policy makers del nostro paese, che sembrano non avere nessuna attenzione al percorso formativo e professionale dei praticanti legali e alle connessioni tra mondo del lavoro e facoltà di giurisprudenza.
L’emblema è il disegno di legge di riforma in discussione Senato che, oltre a mantenere il periodo di pratica a 24 mesi aggravando le procedure concorsuali con due ulteriori test di carattere nozionistico per accedere sia al periodo di tirocinio, sia all’esame di stato, non si occupa per nulla di regolamentare gli obblighi minimi contrattuali che gli avvocati dovrebbero seguire per l’assunzione dei giovani praticanti, costituendo una palese contraddizione con gli obiettivi che l’attuale Governo si prefigge di perseguire a favore dei giovani[10] e agendo in palese contrasto con l’articolo 3 della Costituzione in merito al diritto di eguaglianza sostanziale[11].
Il gap formativo
La grave mancanza della riforma della professione forense è ritenere che la soluzione del male sia a valle e non a monte ossia pensare di affrontare in modo efficace le storture del sistema di reclutamento e crescita professionale degli avvocati senza agire sul sistema formativo degli stessi.
Il disegno di legge, infatti, non pone in alcun modo rimedio ad una preparazione universitaria e post universitaria rimaste ancorate a logiche tradizionaliste:
· I corsi di laurea in legge restano strutturati attraverso un elevato numero di esami con approccio didattico frontale a causa anche dell’elevato numero di matricole e iscritti;
· La manualistica, sulla quale gli studenti si preparano, predilige un approccio teorico;
· Scarsi l’orientamento professionale e le esperienze sul campo,
· Forte mancanza negli esami obbligatori delle discipline di carattere economico ed organizzativo. Medesimo discorso per l’informatica avanzata, l’inglese e le tecniche di risoluzione stragiudiziale delle controversie.
Tali peculiarità, anche in questo caso, si legano in un meccanismo perverso di causa-effetto all’esame di stato della professione forense che, anche nella riforma, permane di carattere nozionistico e i test a risposte chiuse non hanno di certo l’obiettivo di selezionare i migliori praticanti ma solo quello di ridurre con la mannaia il numero di candidati.
Cambiare il monte e non la valle
Diventa quanto mai utile, prestare attenzione alla regolamentazione adottata dagli altri Stati europei in particolare a quelli che per tradizione giuridica sono maggiormente simili al nostro contesto[12].
Per il contesto italiano un provvedimento che porterebbe un beneficio strutturale di lungo periodo potrebbe essere il seguente:
· Riportare la preparazione giuridica di base ad un corso di laurea triennale in scienze giuridiche di carattere teorico a cui far seguire un biennio di specializzazione costruito sul principio di una reale “pratica del diritto”[13]. L’accesso alla specializzazione è programmato attraverso criteri di merito e la valorizzazione delle pratiche d’orientamento professionale.
· Chi intende intraprendere la strada della professione legale, deve seguire almeno 24 mesi di pratica obbligatoria accompagnata da un piano formativo personalizzato curato dall’ordine territoriale degli avvocati, al termine del quale, solo se sono stati raggiunti gli obiettivi formativi il praticante è ammesso all’esame di stato.
· Gli ordini territoriali in collaborazione con le università avviano percorsi di formazione a favore dei “dominus”- tutor che seguiranno i praticanti a loro assegnati
· Il praticante-avvocato ha diritto ad un vero contratto di lavoro, ipoteticamente strutturato sul modello dell’apprendistato di alta specializzazione[14].
· La conclusione del percorso è un esame di stato riformato: non solo tecnico-formalistico ma anche capace di concentrarsi sulle potenzialità di sviluppo e sulle competenze fino allora acquisite dal candidato.
Benefici strutturali e non inutili palliativi
I benefici di una riforma strutturale di questo tipo potrebbero essere:
· Borse di studio garantite per gli studenti a basso reddito durante il quinquennio di studi universitari,
· Ingresso in un mercato del lavoro “bianco” anziché “grigio-nero” a 24-25 anni e riduzione dei tempi di conseguimento della Laurea,
· Taglio degli elevati costi di formazione universitaria e post-universitaria a carico dei praticanti,
· Reale concorrenza tra gli studi legali e fine del “praticantato fittizio”: solo i professionisti che garantirebbero formazione e un contratto potrebbero avere dei praticanti;
· Preparazione giuridica e relazionale potenziate,
· Deflazione definitiva dell’incontrollato numero dei candidati all’esame di stato e contestuale beneficio per il reclutamento di giovani laureati nella Pubblica Amministrazione.
· A monte, filtri basati sul merito e le attitudini personali, anziché grandi “barriere nozionistiche” a valle, con conseguente facilità di riprogrammazione del progetto di vita professionale di un 22enne rispetto ad un over 30.
Contemporaneamente, è essenziale:
· Provvedere a finanziare l’imprenditorialità forense giovanile,
· Liberalizzare il settore,
· Potenziare e rendere davvero obbligatoria la formazione continua degli avvocati
· Istituire degli ammortizzatori sociali minimi per i professionisti a basso reddito che restano senza un impiego.
Cosa fare a questo punto del dibattito?
In questi giorni è ripreso il dibattito in Senato intorno alla riforma della professione forense; è chiaro che i tempi per un cambiamento radicale di quanto contenuto nel testo normativo non ci sono. Maggiori speranze devono essere però nutrite nel dibattito alla Camera.
Speranze che potranno vedere una qualche fondata attuazione nella misura in cui parlamentari consapevoli ma anche studenti universitari, avvocati ed esperti di diversi settori potranno far emergere le potenzialità ancora nascoste di un serio cambiamento per gli avvocati italiani.
La strategia non potrà essere di certo il blocco della riforma perché un cambiamento forte è atteso dagli anni trenta e la mancanza di una riforma della classe forense è con causa del malfunzionamento del sistema giustizia del nostro Paese.
È possibile invece un approccio multidisciplinare (oltre che giuridico-formale come fin’ora è stato fatto anche economico, sociologico e formativo) che faccia emergere la necessità di agire su più fronti per una corretta riforma dell’avvocatura e che solo una buona riforma degli avvocati è condizione necessaria (ma non sufficiente) per iniziare un serio e positivo cambiamento del sistema Giustizia italiano.
Si deve credere in una riforma davvero in grado di contemperare le legittime paure ed aspettative dell’ordine degli avvocati con i legittimi diritti di chi si affaccia alla professione, senza dimenticare l’interesse pubblico di avere un sistema di reclutamento e di selezione efficiente ed equo con positive ripercussioni nel rapporto triangolare cittadino-avvocato-giudice.
In tale direzione punti irrinunciabili di cambiamento dell’attuale testo normativo sono:
– L’obbligo di contrattualizzare il periodo di praticantato anche attraverso il contratto di apprendistato di terzo tipo: solo in questo modo si combatterebbe in modo definitivo la pratica fittizia, lo sfruttamento dei praticanti (molto diffuso al sud) e si valorizzerebbe il periodo di pratica a tutela degli stessi avvocati.
– Il collegamento forte tra contenuti impartiti nelle facoltà di giurisprudenza e professioni legali
– La reale valorizzazione del periodo di pratica legale con verifiche in itinere del reale apprendimento del praticante sulla base di un piano formativo personalizzato con obiettivi chiari e condivisi con il dominus
– Il cambiamento dell’esame di stato in senso di valorizzare la pratica legale, le diverse specializzazioni giuridiche e il futuro professionale dell’avvocato
Contatto: alessio.fionda@ismo.org
[1] Ogni legislatura ha visto la discussione di una riforma della professione forense ma la fonte normativa che disciplina la materia rimane ancora il Regio Decreto Legge del 27 novembre 1933, n. 1578.
[2] Nel 2008 gli avvocati in Italia hanno toccato le 213.081 unità. Sono però ignoti i numeri degli avvocati iscritti che non esercitano la professione. Fonte: Consiglio Ordine Forense d’Europa
[3] Per composizione si intende: sesso, età, università di provenienza, durata del periodo di pratica, numero di volte necessarie per passare l’esame di stato ecc…
[4] Consiglio nazionale forense. Il dato non è certo in quanto non tutti gli ordini forensi territoriali aggiornano tempestivamente l’albo dei praticanti.
[5] Dati dell’associazione italiana giovani avvocati relativi all’anno 2004.
[6] Infatti, formalmente, la durata della pratica è di due anni ma in realtà sono tre[6] (occorre quasi sempre un anno intero per l’espletamento delle procedure di concorso che prevedono tra l’altro la migrazione degli elaborati scritti da una sede di corte di appello ad un’altra) e se l’esito dell’esame è negativo al primo tentativo, probabilità piuttosto elevata nel centro-nord, l’accesso può prolungarsi a tempo indeterminato con la conseguenza di superare i 30 anni nello status di praticante-avvocato; tenuto conto, inoltre, che il percorso di formazione universitaria con la riforma degli ordinamenti è stato portato da 4 a 5 anni.
[7] Pari alla retribuzione media di mercato di un giovane laureato in giurisprudenza nel suo migliore impiego alternativo rispetto a quello della pratica legale.
[8] Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. “URG Urge Ricambio Generazionale – Primo rapporto su quanto e come il nostro Paese si rinnova”. Marzo 2009.
[9] Perpetuando probabilmente “l’immagine tradizionale che caratterizza il burocrate italiano come una figura dalla formazione e dalle competenze quasi esclusivamente giuridiche e quindi impregnata da una cultura “formalistica” poco incline ad acquisire competenze di tipo manageriale e gestionale o di tipo sociale. “La dirigenza pubblica: il mercato e le competenze dei ruoli manageriali. Dipartimento della funzione pubblica. Rubettino, 2003”.
[10] Il riferimento è al “Piano di azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro” del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali congiuntamente al Ministero dell’Istruzione e dell’Università datato 23 settembre 2009.
[11] Art. 3 s.c, cost.: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
[12] In particolare, è il sistema francese il termine di comparazione maggiormente interessante. L’accesso alla professione è disciplinato dalla legge n. 71-1130 del 31 dicembre 1971, modificata nel 2004, e dal decreto n. 91-1197 del 27 novembre 1991.
La formazione iniziale per avvocati prevede l’ottenimento della laurea in giurisprudenza (maîtrise en droit) o di un diploma equivalente e il superamento di un esame di ingresso ad un centro regionale di formazione professionale (Centre de formation professionelle d’avocat). I candidati ammessi seguono un ciclo di formazione della durata di 18 mesi suddivisi in tre sessioni. I primi sei mesi sono dedicati alla frequenza di corsi e discipline fondamentali. I successivi sei mesi sono dedicati alla realizzazione di un progetto pedagogico individuale che permette all’allievo avvocato di iniziare ad avviare la propria carriera verso una determinata professione. A tale scopo egli dovrà effettuare uno stage presso un’amministrazione, una collettività locale o un’impresa, scegliendo i corrispondenti insegnamenti. L’ultima parte della formazione consiste in uno stage presso uno studio legale. Al termine della formazione il candidato deve sostenere un nuovo esame al fine di conseguire il certificato di idoneità alla professione di avvocato (CAPA). Un’innovazione introdotta nel 2004 permette all’allievo avvocato di inquadrare la formazione in un contratto di apprendistato alle condizioni previste dal codice del lavoro. In tal caso, egli viene remunerato da un tutore (maître de stage) al quale sono assegnati obiettivi precisi, e viene inquadrato dal centro regionale che può essere riconosciuto come centro di formazione di apprendistato. Fonti: www.senato.it , www.cnb.avocat.fr.
[13] Il provvedimento, contenuto nel Decreto Ministeriale 25 novembre 2005, del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha riformato il percorso formativo degli studi giuridici, prevedendo un ciclo unico quinquennale, in luogo del precedente 3+2. La seguente proposta prevede, invece, la fusione delle scuole di specializzazione legale istituite dalle università con il biennio di laurea magistrale. I nuovi due anni di specializzazione così costituiti non potrebbero ripetere l’approccio didattico esclusivamente teorico e frontale utilizzato negli insegnamenti del triennio; le aule dovrebbero essere composte da massimo 30-50 persone, le lezioni a frequenza obbligatoria. Il principio della sperimentazione attiva del diritto si esplicherebbe attraverso l’analisi di caso, la simulazione delle procedure processuali, la redazione di atti e pareri, oltre al contatto diretto e continuo con il mondo delle professioni legali. Al termine del primo anno comune, gli studenti seguirebbero un breve tirocinio formativo presso uno studio legale pubblico o privato o presso un ufficio giudiziario. Il secondo anno sarebbe dedicato, invece, ad un percorso d’approfondimento di una branca del diritto scelto in base alla precedente esperienza di tirocinio e alle attitudini personali dello studente.
[14] L’apprendistato di alta specializzazione (che risulta praticamente inattuato), è disciplinato dall’art. 50 del D.Lgs n. 276/03. Prevede l’acquisizione di un diploma o il conseguimento di un titolo universitario attraverso dei percorsi che alternino alta formazione e lavoro. Possono accedervi esclusivamente le persone di età compresa tra i 18 e i 29 anni.