LA POLEMICA CONTRO IL PIANO DI MARCHIONNE, COME E’ STATA IMPOSTATA, E’ UNA VERA FOLLIA

IL DIBATTITO SULL’ACCORDO DI POMIGLIANO NASCE DALL’ACCUSA DI VIOLAZIONI DI LEGGE CHE NON ESISTONO – QUELLO CHE GUARDIAMO CON DIFFIDENZA E’ UN PIANO CHE PORTA PIU’ LAVORO, PAGATO BENE, IN UNA REGIONE DOVE IL LAVORO FA DRAMMATICAMENTE DIFETTO: QUALE SPERANZA DI RISCATTO POSSIAMO DARE AL NOSTRO MEZZOGIORNO, SE NON SCOMMETTENDO SU PIANI COME QUESTO E RIMBOCCANDOCI TUTTI LE MANICHE PER GARANTIRNE IL SUCCESSO?

Versione integrale dell’intervista a cura di Marina Nemeth pubblicata dal quotidiano
il Piccolo di Trieste il 26 ottobre 2010, con alcuni tagli per ragioni di spazio.

La provocatoria dichiarazione di Marchionne, secondo il quale su 2 miliardi di utili neppure un euro viene dall’Italia, ha spaccato perfino il Governo. Calderoli lo attacca citando gli aiuti di Stato di cui la Fiat ha beneficiato negli anni, Fini lo bolla come uomo più canadese che italiano. Dall’altra parte Sacconi e Bondi chiedono una riflessione sulle parole dell’amministratore delegato del Lingotto. Da Cgil e Fiom la reazione è univoca: Marchionne scarica la crisi dell’auto sugli operai. Si comporta come se la Fiat fosse una multinazionale straniera che può andarsene quando gli pare a seconda della convenienza.
Professor Ichino, lei che opinione si è fatto?
L’idea che una multinazionale come la Fiat debba investire in Italia soltanto perché il suo amministratore delegato è italiano, oggi, a me sembra una grossa sciocchezza. E mi preoccupa un po’, per le sorti del nostro Paese, sentirla anche in bocca a politici di primo piano.

Ma Marchionne che cosa vuole di più? Non gli basta l’accordo di Pomigliano firmato da quattro sindacati su cinque e approvato da due dipendenti su tre?
Il problema che Marchionne pone è che in Italia non bastano queste maggioranze per garantire l’effettività di un accordo sindacale di questo genere.

Perché non bastano?
Per esempio, lo sciopero dello straordinario proclamato dai Cobas, a Pomigliano, da qui fino al 2014, produce l’effetto pratico di rendere facoltativa per ciascuno dei lavoratori interessati l’applicazione della clausola sul 18mo turno, che è invece un ingranaggio essenziale del piano. Ma, al di là di questo, io capisco che tutto il dibattito seguìto a quell’accordo possa essere visto come una follia.

Una follia in che senso?
Quel dibattito è nato da una denuncia della Fiom che non sta in piedi: quella secondo cui l’accordo violerebbe la legge e addirittura la Costituzione.

E secondo lei non è così.
Gli stessi dirigenti della Fiom, quando ne discuto con loro, anche in pubblico, riconoscono che non c’è alcuna violazione di legge e che la vera questione è quella delle deroghe al contratto collettivo nazionale. Ma, intanto, metà dell’opinione pubblica italiana si è convinta che Marchionne offra lavoro solo in cambio di una rinuncia ai diritti fondamentali dei lavoratori.

Però anche le deroghe al contratto nazionale portano un peggioramento delle condizioni di lavoro.
Niente affatto. L’ora e mezza in più di straordinario alla settimana porta quaranta ore di lavoro settimanali e 300 euro in più in busta-paga. Fare le barricate contro una “deroga” come questa, in una regione afflitta da una drammatica mancanza di lavoro come la Campania, è davvero una cosa da matti. Che speranza di riscatto possiamo dare al nostro Mezzogiorno, se non scommettendo su molti piani come questo e rimboccandoci tutti le maniche per garantirne il successo?

Poi c’è la clausola contro l’assenteismo abusivo.
Quella avrebbero dovuto chiederla da tempo gli stessi lavoratori, o almeno la maggioranza di loro. Perché non si può difendere il diritto alla malattia retribuita senza combatterne gli abusi più gravi e diffusi, come quelli che ancora recentemente hanno caratterizzato lo stabilimento di Pomigliano.

La Fiom obietta che si incomincia così e non si sa dove si va a finire.
L’argomento del “piano inclinato” è sempre stato il cavallo di battaglia di tutti i peggiori conservatorismi.
Marchionne promette un aumento dei salari legato alla produttività. Non è un’idea del tutto peregrina.
Anzi: dovrebbe essere l’elemento portante di tutti gli accordi aziendali, soprattutto nel Mezzogiorno.

Perché le aziende delocalizzano le produzioni all’estero sempre di più?
Le cause sono molte: dai difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche ai difetti delle nostre infrastrutture. Ma tra queste va messa anche una legislazione del lavoro caotica, illeggibile, intraducibile in inglese; e un sistema di relazioni sindacali inconcludente, perché attribuisce di fatto un potere di veto sui piani industriali innovativi anche al sindacato minoritario.

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