SULLA RIFORMA DELL’AVVOCATURA IL GOVERNO SPOSA UNA CONCEZIONE DELLA DISCIPLINA DELLE PROFESSIONI RIGIDAMENTE LEGATA AL MODELLO TRADIZIONALE DELLA BOTTEGA ARTIGIANA OPERANTE IN UN MERCATO CONTROLLATO DAI CONSIGLI DELL’ORDINE, CON FORTI LIMITI ALLA CONCORRENZA
Editoriale per la Newsletter n. 124 e per il sito lavoce.info, 25 ottobre 2010
Due anni fa, nel novembre 2008, il ministro Alfano, al Congresso nazionale forense di Bologna, fece agli avvocati un discorso che suonava sostanzialmente così: “se mi portate un disegno di riforma sul quale concordino tutte le componenti e le voci dell’avvocatura, io mi impegno a farlo passare in Parlamento”.
Questo discorso avrebbe avuto un senso nel contesto dell’ordinamento corporativo. Dopo la sua abrogazione, la disciplina della professione forense non è più posta dallo Stato a tutela dell’interesse prioritario degli avvocati, bensì principalmente dell’interesse dell’amministrazione della giustizia e della collettività, degli utenti del servizio. Sulle linee e sui contenuti della riforma, dunque, non poteva certo bastare un accordo limitato alle componenti interne dell’avvocatura.
In realtà non è stato neppure raggiunto quell’accordo unanime in seno al ceto forense, che il ministro Alfano richiedeva: ad esempio, non sono affatto d’accordo con il disegno di riforma su cui ora il Senato sta discutendo le associazioni che rappresentano la componente più giovane della categoria. Ma il punto è che l’accordo necessario avrebbe dovuto essere perseguito anche con gli organismi e le associazioni che rappresentano l’interesse dell’amministrazione della giustizia, degli utenti e delle imprese a un esercizio corretto della professione e a uno svolgimento corretto della concorrenza nel relativo mercato. Di questo interesse il ministro Alfano si è invece totalmente dimenticato; quando l’Autorità antitrust ha manifestato il proprio orientamento nettamente contrario, quando hanno protestato le associazioni degli imprenditori e dei consumatori, il ministro non ha dato loro alcun ascolto. E ha mantenuto il proprio appoggio a questo disegno di legge approvato dal Consiglio Nazionale Forense, che segna un netto ritorno all’indietro rispetto al decreto Bersani del 2006.
Contro un principio preciso dell’ordinamento europeo e del nostro ordinamento nazionale, questo progetto si propone di reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime (mercoledì scorso, al termine di un dibattito lungo e molto teso, il Senato ha approvato in prima lettura questa norma, che ribalta la regola posta dal decreto Bersani nel 2006); di reintrodurre il divieto della pubblicità commerciale per gli studi professionali; di reintrodurre la necessità (da tempo superata) dell’iscrizione all’albo anche per poter svolgere attività di consulenza stragiudiziale; di ribadire e rafforzare il divieto di costituzione degli studi legali in forma di società per azioni (consentita invece, sia pure con qualche opportuna limitazione, nella maggior parte dei Paesi occidentali); di rafforzare le barriere che devono essere superate dai giovani per accedere alla libera professione; di sfoltire drasticamente gli albi escludendone tutti coloro che esercitano la professione secondo un modello diverso da quello tradizionale (a tempo pieno, in modo esclusivo e continuativo per tutta la vita); di tornare ad attribuire esplicitamente all’Ordine una funzione di sostanziale rappresentanza degli interessi economici e professionali della categoria. Il modello di studio legale a cui si ispira questo progetto di riforma è quello tradizionale dello studio-bottega artigiana, nel quale il professionista opera a tempo pieno in modo continuativo ed esclusivo, in collaborazione con un numero limitato di colleghi e di collaboratori: ogni altra forma di esercizio della professione, secondo questo disegno, deve considerarsi sostanzialmente vietata.
Soltanto poche settimane fa il ministro Tremonti proponeva di sancire esplicitamente nella Costituzione il principio per cui “tutto ciò che non è vietato è permesso”; in questo disegno di legge si dice sostanzialmente il contrario: “tutto ciò che non corrisponde al modello tradizionale di esercizio della professione forense è vietato”.
Qualche imbarazzo per questo progetto deve averlo provato per un istante anche il ministro della Giustizia Alfano quando, meno di due mesi fa, al seminario Ambrosetti di Cernobbio, di fronte ai protagonisti dell’economia e della finanza globale e alla stampa internazionale, lo ha in parte sconfessato dichiarando pubblicamente che non era intenzione del Governo reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime. Mercoledì scorso ho ricordato al Senato questa presa di posizione pubblica del ministro, chiedendo che la sottosegretaria alla Giustizia Casellati – impegnata in Aula nella discussione sul disegno di legge – ne traesse le dovute conseguenze. Dopo qualche affannosa consultazione telefonica, la rappresentante del Governo ha dichiarato di “non sapere” della dichiarazione del titolare del suo dicastero al seminario Ambrosetti. E ha comunque riconfermato un orientamento del Governo favorevole al ripristino delle tariffe minime inderogabili, oltre che a tutte le altre regole e divieti mirati a perpetuare, rendendolo esclusivo, il modello tradizionale dello studio legale-bottega artigiana che piace tanto al Consiglio Nazionale Forense.
L’imposizione di quel modello tradizionale come unico modo possibile di esercizio della professione da parte degli avvocati italiani, oltretutto, impedisce loro di competere ad armi pari con i loro colleghi stranieri, all’estero e persino sullo stesso nostro territorio nazionale. Ve lo immaginate uno studio legale italiano che prova a offrire i propri servizi sulla piazza di Londra o di Chicago dovendo rispettare questa legge, quindi non potendo raccogliere nel mercato azionario i capitali per gli investimenti necessari, non potendo di fatto promuovere una class action perché il divieto del patto di quota-lite non lo consente, non potendo neppure informare i potenziali clienti della propria esistenza per via del divieto della pubblicità? Gli studi di Londra e di Chicago, però, sono già venuti da noi, stanno già incominciando a prendersi il meglio del nostro mercato dei servizi legali, senza certo render conto al nostro Consiglio Nazionale Forense sul come hanno reperito i capitali necessari, quali tariffe applicano ai loro clienti, con quale tipo di contratto ingaggiano i collaboratori e così via.
La verità è che con questo disegno di legge si sta facendo un’operazione regressiva, che non va nell’interesse del Paese, ma non va neppure nell’interesse particolare della stessa avvocatura italiana.