FACCIA A FACCIA CON SALVO LEONARDI SU POMIGLIANO

DIALOGO CON UN RICERCATORE DELL’IRES-CGIL SUI DUE “PUNTI CALDI” DELL’ACCORDO AZIENDALE CHE HA VISTO NEGLI ULTIMI MESI LA SPACCATURA PIU’ GRAVE TRA CGIL DA UNA PARTE, CISL E UIL DALL’ALTRA

E’ riprodotto qui sotto uno scambio di messaggi intercorso nei giorni 16 e 17 ottobre 2010 tra Salvo Leonardi, ricercatore di diritto del lavoro e delle relazioni industriali presso il centro-studi della Cgil, e me a seguito della pubblicazione di un suo saggio sull’accordo di Pomigliano d’Arco nel mensile della stessa Confederazione “Quaderni di Rassegna Sindacale” – Sullo stesso tema v. anche la mia comunicazione al seminario Arel del 29 settembre 2010

Scarica il saggio di Salvo Leonardi, ricercatore dell’Ires-Cgil, “Gli accordi separati:un vulnus letale per le relazioni industriali” in formato pdf

IL MIO PRIMO COMMENTO AL SAGGIO DI SALVO LEONARDI
Caro Salvo, grazie del saggio, che ho letto con grande interesse. E’ chiarissimo, molto ben scritto e ben argomentato (a parte qualche dato, che non corrisponde a quelli di cui dispongo io: per esempio sui tassi di assenza per malattia). Solo due osservazioni sui due punti caldi.
1. – Sulla clausola relativa alle “punte anomale di assenza per malattia”. Continuo a non concordare con le critiche che vengono mosse alla disposizione contenuta nell’accordo. Non esiste al mondo alcuna forma possibile di controllo ispettivo sulla denunciata emicrania o lombalgia della durata di un giorno. Dunque, quando si osservi una evidente intensificazione delle assenze in corrispondenza con un evento esterno “non epidemico”, la sola contromisura ragionevolmente possibile all’abuso – contromisura che nell’ordinamento italiano rientra pacificamente nella competenza della contrattazione collettiva – può consistere nell’istituzione della franchigia retributiva per la giornata di malattia per la quale il certificato medico è svalutato dalle circostanze (si tratta in sostanza di applicare un criterio analogo a quello della “prova statistica” che viene ammessa dalla legge n. 125/1991 in materia di discriminazioni). D’altra parte, a Pomigliano le punte di assenza in corrispondenza con la partita del mercoledì hanno continuato a verificarsi anche di recente, fino a quando lo stabilimento ha lavorato.
2. – Sulla clausola di tregua. Innanzitutto: non si parla di “tregua assoluta”, ma “relativa”, cioè limitata agli scioperi relativi a materie disciplinate nel contratto. In secondo luogo, l’attribuzione della titolarità del diritto di sciopero all’individuo-lavoratore non toglie affatto che del diritto possa disporre un contratto collettivo, come avviene per molti altri diritti individuali (retribuzione, tempo libero/tempo di lavoro, inquadramento, ecc.). Non basta comunque l’ipse dixit (per quanto riferito all’autorità di Gino Giugni) per superare la necessità di un confronto con gli standard dei sistemi di relazioni industriali di tutti i maggiori Paesi occidentali, nei quali la clausola di “tregua relativa”, vincolante anche per i singoli lavoratori cui il contratto si applica, è considerata come ovvio complemento di qualsiasi contratto.
Detto questo, mi interesserebbe molto poter discutere con te serenamente, anche in pubblico, di tutta la questione. Perché, invece di continuare a discutere a distanza, non organizziamo un “faccia a faccia”, a Roma o a Milano, anche in una sede Cgil?
Con viva cordialita’
Pietro

LA RISPOSTA DI SALVO LEONARDI
Caro Pietro, innanzitutto sono sinceramente grato e lusingato per l’attenzione che hai voluto riservare al mio articolo. Per la tempestività e la grande cortesia con cui lo hai fatto.
Nel merito, provo a reagire ai tuoi rilievi.
Il primo: ho trovato anch’io sorprendenti i dati comparati sull’assenteismo. Le fonti sono tuttavia autorevoli: la Fondazione di Dublino (puoi verificarla facilmente), che a sua volta per l’Italia si basa su dati ISTAT del 2006. Saranno pure stime per difetto, ma in un’era in cui i raffronti internazionali si sprecano, non è detto che questo sia il meno attendibile. Su Pomigliano non ho fornito alcun dato ma evocato un trend. Dei sociologi dell’Università di Salerno, che lì hanno svolto un’inchiesta, mi dicono che negli ultimi anni in cui la fabbrica ha funzionato a regime (2006-2008) vi è stato un calo significativo dell’assenteismo. Cura Marchionne, a quanto pare, e una crisi che non credo induca a comportamenti individuali troppo disinvolti o addirittura incoscienti.
I limiti dell’azione ispettiva sono reali, hai ragione; come anche il rischio degli abusi da parte dei lavoratori. Ma se i controlli sono così facilmente eludibili, perché solo Pomigliano e non anche il resto di un paese che vanta invece quei tassi di cui ci dice l’ISTAT/EIRO (0,8% contro medie europee del 4-5%? La lombalgia che citi, ad esempio, è un disturbo muscolo-scheletrico molto diffuso e reale, come rilevato da tutte le indagini europee. A cui però fanno seguito, in genere, raccomandazioni sul come contrastarlo e prevenirlo. Fra queste non ho visto quelle previste a Pomigliano. Penso all’Agenzia di Bilbao. E in ogni caso: se tornassimo a chiederci cosa significa lavorare “alla catena” con ritmi e saturazioni “sotto il minuto”? Per decenni? Dove da 10 minuti in più o in meno di pausa si pretende di ipotecare la vita o la morte di una impresa?
Permettimi, ma delle due l’una: o usiamo del fenomeno spiegazioni socio-psicologiche (condizioni di lavoro, fatica reale, stress psico-fisico, demotivazione) o altrimenti evochiamo inevitabilmente scenari vagamente “antropologici” e caricaturali (tipo: indolenza o cultura ambientale) dal retrogusto un po’ razzista, a cui peraltro Pomigliano e Napoli non sono certamente nuovi. Non dico che sia il tuo punto di vista, intendiamoci, ma è il rischio in cui si incorre tutte le volte che si smette seriamente di interrogare le cause vere, profonde, di certi fenomeni sociali.
Ammetto come la c.d. ‘prova statistica’ rappresenti un indicatore sintomatico da tenere opportunamente in conto. Ma ha il grave vizio di colpire indistintamente nel mucchio. Il concetto di punte anomale “significativamente superiori alla media” è obbiettivamente vago, foriero di discrezionalità datoriale da un lato e conseguenti contenziosi dall’altro; sia pure in sede di commissione paritetica. L’analogia che suggerisci con la normativa anti-discriminatoria, per quanto suggestiva, mi pare un po’ forzata. Il criterio statistico-presuntivo va usato – e infatti è usato – con estrema cautela. E con finalità promozionali; non sanzionatorie. Cosa diremmo se – riscontrando chiare ed inquietanti correlazioni statistiche fra lavoro autonomo ed evasione fiscale, o fra incidenti sul lavoro e imprese edili – si decidesse di sanzionare entrambe queste due categorie con penalizzazioni fiscali o di altro genere, a prescindere da qualunque verifica caso per caso? Per tacere d’altro, è l’equità e la ragionevolezza dell’ordinamento che non lo potrebbe consentire. Idem per le malattie. I premi presenza, che pure non sono certo esenti da critiche, rappresentano incentivi, individuali e motivanti. Il metodo di Pomigliano è invece solamente punitivo. Non si limita a non dare, ma toglie. E per giunta a tutti per perseguire di fatto solo qualcuno.
Rilevo infine (ma non è importante) come il Napoli – da decenni fuori dalla scena calcistica europea – non giochi “al mercoledì” da molto tempo.
Clausola di tregua. Dici che non è “assoluta” ma “relativa” in quanto “limitata alle materie disciplinate dal contratto”. Beh, mi pare che non siano affatto poche. Anzi; rovesciamo la questione: quali sono quelle che ne restano fuori, essendovi dentro orario/pause/ferie, carichi e organizzazione del lavoro, malattia, retribuzione, diritti sindacali? E’ vero: un contratto collettivo può disporre dei diritti individuali (come avviene per retribuzione, tempo libero/tempo di lavoro, inquadramento, ecc.). Infatti! ma noi qui stiamo parlando del diritto (costituzionale) di sciopero. E questo rientra nella disponibilità – sempre “relativa” – delle parti solo nelle misura in cui le vincola collettivamente nella c.d. parte obbligatoria. Cioè con l’obbligo endo-associativo di influenzare i propri aderenti. Non certo fino a requisire il diritto individuale (magari del dissenziente o del non inscritto) di scioperare, pena sanzione disciplinare fino al licenziamento. Qui sono io che vorrei farti una domanda: come fai tu – alfiere italiano della riscoperta dell’individuo nel diritto del lavoro – ad ammettere un potere così grande del sindacato non solo sui propri iscritti ma in generale su tutta la platea dei lavoratori? Gli stessi ai quali – secondo i firmatari di Pomigliano e dei contratti separati – non si deve poter dare la parola quando si firmano i contratti collettivi che li riguarderanno.
Su come altrove si disciplini lo sciopero e la relativa clausola di tregua ho cercato di argomentare come il contesto in cui ciò di norma avviene non trova alcun aggancio con la situazione italiana. A cominciare dal regime quasi-monopolitico in cui lì si esercita la rappresentanza. Ma se proporrai in Parlamento (con o senza Castro) non i 3 articoli sulla partecipazione, ma i circa 70 della legge svedese sulla codeterminazione del ’77, giuro che mi adopererò in tutte le sedi della Cgil in cui mi è data facoltà di parola per sostenere la tua battaglia. A cominciare da quell’art. 44: la clausola di tregua si interrompe immediatamente se la procedura di co-decisione non è correttamente rispettata dal datore in materia di “conclusione del contratto individuale di lavoro, organizzazione dell’impresa, attività degli affari”. Capisci bene come con una norma di legge così in Italia, e non solo a Pomigliano, ci sarebbe da configgere liberamente un giorno sì e l’altro pure.
Permettimi un ulteriore inciso “scandinavo-comparato”. Siccome sei un noto estimatore della flexicurity danese colgo l’occasione di questa inattesa corrispondenza per dirti che mi sta benissimo, se però alziamo al 63% l’aliquota fiscale marginale (dei ricchi), che aiuta a finanziare quel sistema, e affidiamo alla gestione monopolistica del sindacato i fondi assicurativi per la disoccupazione. Così in un baleno li proiettiamo al 75% di membership. Ci stai?
Infine l’ipse dixit. La mia citazione di Giugni – come anche quella successiva di Cella e Treu – è evidentemente un espediente retorico. Del tutto legittimo, ritengo, in discussioni di questo genere. Finalizzato a segnalare come alcuni fra i maggiori maestri della teoria dell’ordinamento intersindacale – tanto cara per esempio alla Cisl – abbiano espresso pareri molto dissonanti dalle posizioni dei loro presunti epigoni. Permettimi però di rilevare come – sia pure involontariamente – tu sia oggi il giuslavorista italiano più usato e abusato dagli altrui “ipse dixit”. Da oltre un decennio non c’è polemica rivolta contro la Cgil o la sinistra giuslavoristica che non si basi su una tua qualche citazione. Ecco; io penso sinceramente che dovresti indurre maggiore discrezione e continenza nei tuoi irrefrenabili estimatori. Lo dico perché al di là di tutto credo ti abbiano reso un cattivo servizio. Sei pur sempre un iscritto della Cgil e tanta simpatia fra quanti sono platealmente contro la tua organizzazione alimenta interpretazioni ingenerose e sbagliate del tuo ruolo. Oltre che, aggiungo, della tua figura intellettuale che – lo sapevo già ma ne ho avuto una riprova personale e diretta oggi – esprime una ‘civiltà del dialogo’ davvero non comune.
La tua proposta di confrontarci, ‘faccia a faccia’, in un dibattito – e torno alle parole iniziali – mi onora molto. Al di là dei dissensi che posso nutrire verso le tue posizioni, ti considero un maestro di diritto del lavoro. Ma accolgo la tua proposta e ti prometto di farne parola con quanti, ad esempio all’IRES e in CGIL nazionale, possono rendere operativamente possibile un confronto simile. Ma altre sedi possono essere prese in considerazione, ovviamente. Incluse quelle della “rete”. E in ogni caso, spero si possa trovare il modo per mantenere sempre aperto il dialogo.
Un saluto caro
Salvo

LA MIA REPLICA
Caro Salvo, grazie a te della immediata risposta.
Sull’ultima parte del messaggio: concordo e mi metto fin d’ora a disposizione per la prosecuzione del dibattito fra di noi in qualsiasi sede e luogo, reale o virtuale.
Sulla malattia, ti rispondo che la clausola di Pomigliano mira a (e ha l’effetto di) colpire soltanto le punte anomale di assenze verificatesi in un giorno determinato, coincidente con un “evento a carattere non epidemico”, affidando l’individuazione della coincidenza a una commissione paritetica: nessun pregiudizio regionalista o razzista, dunque, ma soltanto la ragionevole contromisura per un fenomeno che a Pomigliano ha continuato a verificarsi fino al 2008 in misura molto superiore che altrove. Il diffondersi di un virus influenzale è un “evento epidemico”: quella clausola non può dunque operare in riferimento ad esso; inoltre il virus influenzale non si manifesta in un giorno determinato e solo in quello, come invece la partita del mercoledì. La stessa clausola prevede, poi, che la commissione paritetica ristabilisca comunque il pagamento della retribuzione per il lavoratore che risulti effettivamente malato o infortunato.
Quanto al premio di presenza, che a te piace di più rispetto alla franchigia retributiva, esso non è altro che una deroga alla regola del pagamento della retribuzione integrale anche per i giorni di malattia. Sostanzialmente, esso è in tutto e per tutto assimilabile a una franchigia retributiva parziale, che però opera per qualsiasi giorno di malattia; mentre la clausola dell’accordo di Pomigliano istituisce una franchigia che opera soltanto per un determinato giorno, individuato dalla commissione paritetica sulla base del criterio della coincidenza con l’evento esterno non epidemico. Dunque, rispetto alla regola (contrattuale) generale del pagamento della retribuzione anche per i periodi di assenza per malattia, costituisce una deroga più grave il premio di presenza rispetto alla clausola di Pomigliano.
Sulla clausola di tregua: d’accordo con te sull’apprezzamento positivo per il sistema svedese: ne sono sempre stato un estimatore entusiasta. Però non c’è solo la Svezia: ci sono anche tutti gli altri Paesi occidentali (tranne la Francia), dove pure la clausola di tregua “relativa” opera non soltanto nella parte obbligatoria del contratto collettivo, bensì anche in quella normativa, vincolando pertanto tutti i lavoratori cui il contratto collettivo si applica; quello che ci rende indigesto quel regime è soltanto il nostro attaccamento al modello di relazioni industriali ispirato al principio della conflittualità permanente, dal quale però – dove è stato praticato – negli ultimi trent’anni i lavoratori italiani non hanno tratto alcun giovamento.
Sulla rivalutazione dell’autonomia individuale: anche i sostenitori della titolarità individuale del diritto di sciopero – quorum numquam ego – aggiungono che è un diritto “a esercizio collettivo”: fa parte della sua stessa natura. Se dunque è pacifico che l’esercizio del diritto è collettivo, perché mai non potrebbe esserne collettivo anche l’atto di disposizione negoziale? Non vedo in questo alcuna lesione di prerogative dell’individuo, dal momento che l’individuo comunque non potrebbe esercitare da solo del diritto di sciopero; mentre viceversa vedo l’utilità per i lavoratori di poter disporre sul piano collettivo di questa moneta di scambio, senza la quale l’imprenditore può non avere interesse a stipulare alcun contratto collettivo.
Sulla flexsecurity danese: la mia proposta accolla per intero alle imprese il costo del sostegno del reddito dei lavoratori che perdono il posto (esattamente nelle misure danesi e per la durata danese); non c’è dunque necessità di aumentare le imposte sulla generalità dei cittadini per sostenere quel sistema: è come se imponessimo ai soli imprenditori una tassa di scopo. Messa così, confermi il tuo consenso?
Sull’uso che si fa di quel che scrivo: ciò che pubblichiamo non ci appartiene più, vive di vita propria totalmente al di fuori del nostro controllo. E la divergenza tra l’intendimento dell’autore e il significato concreto che le affermazioni assumono è ampliata dai media, i quali tendono sempre a forzare, estremizzare i contenuti di quel che si dice (soprattutto con i titoli delle interviste, che l’intervistato non è legittimato a controllare), per poter meglio attirare l’attenzione dei lettori, “fare notizia”. Questo è il motivo di un cruccio di cui credo soffra qualsiasi studioso i cui scritti assumano un qualche rilievo politico; e ovviamente ne soffro molto anch’io. Ma, più che mettere integralmente tutto quello che dico e scrivo on line, in modo che chi vuole possa controllarne e verificarne il contenuto alla fonte, non posso fare.
A presto e grazie ancora dell’occasione di discussione e approfondimento!
Pietro

LA CONTROREPLICA DI SALVO LEONARDI
Caro Pietro,
ancora una volta grazie per… “avermi tenuto in pensiero”.
Sulla differenza fra titolarità del diritto e titolarità del suo esercizio si sono spesi fiumi di inchiostro. Ammesso che il nostro ordinamento lo consenta – e allo stato delle cose ne dubito profondamente – in nessun caso, credo, potremmo identificare “collettivo” con “sindacale”, e per giunta – l’ho scritto – nella forma autoreferenziale di alcune sigle soltanto dotate di non si capisce quale primato rappresentativo (certificato) di disposizione. Ci si organizza per lo sciopero e nello sciopero, anche nella forma di gruppi non particolarmente strutturati. E lo sciopero, da questo punto di vista, è solo una delle modalità concrete con cui si espleta la libertà costituzionale di organizzazione.
Sul modello di “conflittualità permanente”, che come dici avrebbe penalizzato i Paesi in cui la si è praticata, ti chiedo a quali ti riferisci. I conflitti sono in calo pressoché verticale ovunque e da parecchi anni a questa parte, ormai. Soprattutto da noi, quanto meno nell’industria. In chiave storica, rilevo come buona parte delle conquiste del movimento operaio e sindacale si sono avute a ridosso di grandi momenti di mobilitazione. Il nesso inscindibile conflitto/contratto collettivo non lo ha teorizzato il linkskommunismus di Korsch o Pannekoek (tanto per dire), ma la scuola pluralistica anglosassone. Chi sosteneva il contrario – negli studi internazionali di relazioni industriali – non veniva neppure preso in considerazione. Come ricordo nell’articolo, Danimarca e Norvegia sono fra quelli che ultimamente hanno scioperato di più. La Francia sciopera parecchio, e pur avendo il sindacato con meno iscritti del mondo occidentale, per spesa sociale sul Pil ha lo stesso livello della Svezia. Il secondo del mondo. Non male! Anche grazie al conflitto. Temo sia stato proprio il venire meno della conflittualità – meglio ancora: della forza e della possibilità di farvi ricorso in ultima istanza – a spiegare il clamoroso spostamento di ricchezza da salari/pensioni a profitti e rendite, in tutto il mondo occidentale, negli ultimi 30 anni.
Sulla flexicurity e sul suo finanziamento. Non credo si possano raggiungere i livelli danesi (per durata e tasso di rimpiazzo) col solo aumento della contribuzione datoriale. Che infatti è minima nei paesi nordici, dove tutto il sistema, beveridgiano, si regge da sempre sulla fiscalità generale. Posto che mi accontenterei anche di assai meno che in Danimarca, quali effetti immagini rispetto al costo del lavoro già alto del nostro paese? In un paese nel quale il 90% delle aziende è sotto i 15 dipendenti, e quindi con un onere contributivo per la disoccupazione nell’ordine dell’1,31% del salario, di quanto glielo si può aumentare il peso per portarlo ai livelli scandinavi? Ma se gli artigiani, che ne versano appena lo 0,40%, non vogliono essere parificati neppure all’1,31% preferendo la modesta contribuzione al fondo bilaterale per il sostegno al reddito, come puoi pensare di portare i loro dipendenti ai livelli ‘danesi’?
Ma concordo che un qualche aumento della contribuzione sociale per la voce disoccupazione è necessaria. Dunque condivido proposte come la tua, o quella di Boeri, Garibaldi o Nencini (bonus/malus), o di Tangian (flexinsurance), e ora anche della Cgil, di una riforma degli ammortizzatori sociali in cui chi usa maggiormente il lavoro flessibile se ne deve anche accollare i maggiori costi contributivi e sociali, che scarica sulla società. Un po’ come accade in Spagna, dove per i contratti a termine i datori versano una contribuzione intorno al 10%. Superiore anche a quella che noi applichiamo all’edilizia.
Di tutte queste cose avrò ovviamente piacere di conoscere le tue contro-argomentazioni. Un caloroso saluto
Salvo

ULTIME NOTE PER CHIUDERE (PROVVISORIAMENTE) QUESTO SCAMBIO
Caro Salvo, solo poche ulteriori note su quel che mi scrivi.
Sulla titolarità dello sciopero e la conflittualità permanente, la mia concezione del conflitto sindacale e dello sciopero in particolare, nonché della clausola di tregua come moneta di scambio indispensabile per la scommessa comune dei lavoratori con l’imprenditore su di un buon piano industriale, l’ho esposta compiutamente cinque anni fa nel quarto capitolo del libro A che cosa serve il sindacato: rinvio a quello anche per i riferimenti comparatistici.�
Sui costi della flexsecurity: l’assicurazione complementare contro la disoccupazione delineata nel mio progetto (che garantisce il 90% della retribuzione, con un tetto massimo di 36.000 euro annui di indennità, per il primo anno successivo al licenziamento, l’80% per il secondo e il 70% per il terzo, come in Danimarca), nel settore industriale potrebbe essere finanziata con un contributo pari approssimativamente allo 0,5% del monte-salari complessivo. Questo dato si basa sull’ipotesi di un turnover annuo pari al 5% della forza lavoro complessiva, di cui metà imputabile a licenziamenti per motivo economico od organizzativo, con ricollocazione entro il primo anno dal licenziamento (1) dell’85% dei lavoratori che perdono il posto (il dato italiano 2007 era dell’82%). Il mio progetto (d.d.l. n. 1481/2009) prevede che per le imprese con meno di 16 dipendenti (oggi non soggette al regime dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) il costo medio del trattamento complementare, nella misura appunto dello 0,5% del monte salari complessivo, sia a carico dell’Erario (a regime, con il trattamento esteso a tre milioni di lavoratori dipendenti dalle piccole imprese, questo costerebbe allo Stato circa 500 milioni l’anno). Quello stesso 0,5% del monte-salari complessivo graverebbe invece interamente sulle imprese di dimensioni maggiori, oggi soggette all’articolo 18. Le quali, comunque, ne avrebbero in cambio il vantaggio di poter operare l’aggiustamento degli organici in modo più fluido, risparmiando il costo (non contabilizzato come tale nei loro bilanci, ma non per questo meno gravoso) del ritardo con cui invece l’aggiustamento stesso può avvenire oggi.
In questo modo è possibile realizzare, con un onere di soli 500 milioni annui per l’Erario, il duplice rilevantissimo risultato della parificazione del regime di job security tra imprese piccole e medio-grandi, e del passaggio per tutte, grandi e piccole, dal regime “duale” attuale di tipo mediterraneo a un regime universale di flexsecurity di tipo scandinavo.
Poiché anche tu concordi sul punto che il regime di flexsecurity di tipo scandinavo è migliore del nostro attuale, perché non provarci?
Cordialmente
Pietro

(1) Nel settore industriale, il primo anno dal licenziamento per motivo oggettivo è attualmente già coperto da un trattamento di disoccupazione speciale (o “mobilità”) pari all’80% dell’ultima retribuzione del lavoratore: dunque, per questo primo anno il trattamento complementare grava sull’impresa che licenzia soltanto nella misura del 10%, o poco più. Questo, per un verso, fa sì che il costo medio del trattamento complementare sia molto modesto (solo per uno o due lavoratori licenziati su dieci, mediamente, l’impresa dovrà affrontare costi nettamente superiori, per il protrarsi della disoccupazione oltre i primi dodici mesi); per altro verso, attiva un forte incentivo che spinge l’impresa a fare ricorso ai migliori servizi di outplacement e di riqualificazione professionale del lavoratore, per evitare che il periodo di disoccupazione possa superare i dodici mesi (otto mesi al di fuori del settore industriale).

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