IMMIGRAZIONE: UN VALORE CUI DARE DELLE REGOLE

IL PD SI INTERROGA SULLE PROBLEMATICHE LEGATE ALL’IMMIGRAZIONE E CERCA SOLUZIONI CONCRETE PER RENDERE POSSIBILE L’INTEGRAZIONE DI IMMIGRATI, STUDENTI E LAVORATORI, CHE ARRICCHISCONO IL NOSTRO PAESE E L’EUROPA – OCCORRE AGGIORNARE IL PATTO EUROPEO PER L’IMMIGRAZIONE E SEGUIRE L’ESEMPIO DI PAESI CON UN’ANTICA TRADIZIONE MIGRATORIA, PRIVILEGIANDO CRITERI DI AMMISSIONE QUALITATIVI PIU’ CHE QUANTITATIVI

Documento discusso e approvato dal Pd all’Assemblea programmatica di Varese dell’8-9 ottobre 2010 in materia di immigrazione. Il documento è stato discusso da una Commissione, che ha redatto un verbale con la sintesi della discussione.

Cosa diciamo di fronte a un genitore che non ha nulla contro gli immigrati e che scopre che suo figlio è il solo italiano in una classe di bimbi stranieri? E alle mamme di Sonnino che chiedono che la donna marocchina si scopra il viso quando porta il bambino alla materna perché gli altri piccoli ne hanno paura? E agli abitanti del quartiere di periferia che protestano perché con l’insediamento dei Rom sono aumentati i furti nelle case? Cosa avrebbe detto un premier di centrosinistra dopo le scelte sui Rom di Sarkozy?

Cosa diciamo al bambino straniero che a causa delle quote del Ministro Gelmini deve prendere due pullman per arrivare a scuola ? E al padre di famiglia che perde il lavoro e che ha paura che il suo collega immigrato gli faccia concorrenza ? Ai lavoratori immigrati che sono in Italia da oltre 10 anni, hanno portato qui la famiglia, hanno fatto lavori che gli italiani non fanno più, e che ora a causa della crisi lo perde e ha soltanto 6 mesi tempo per cercarlo un altro, altrimenti viene espulso perché così vuole la legge Bossi-Fini ? Cosa diciamo alle famiglie e alle imprese che hanno tra loro lavoratori immigrati cui è scaduto il visto turistico ed il permesso di soggiorno e non possono rinnovarlo perché le quote dell’ingresso regolare sono chiuse ? E al giovane immigrato, nato e cresciuto in Italia, che al compimento di 18 anni, se non trova subito un lavoro stabile diventa irregolare sulla base della nostra legge sulla cittadinanza e rischia di essere espulso ?

Vogliamo partire dalle domande dell’Italia vera, dai dilemmi che vivono le sue persone.

Vogliamo rompere il perverso circolo politico mediatico che alimenta i pregiudizi e le paure e non risolve i problemi. Vogliamo sollecitare gli italiani a diventare consapevoli di come sta cambiando l’Italia con la presenza degli immigrati, di come e perché abbiamo bisogno di loro e che dunque dobbiamo imparare a vivere insieme.

Italiani e nuovi italiani. Dobbiamo liberarci dalla paura e accendere la curiosità verso il mondo che cambia.

I nuovi italiani
Gli immigrati sono una popolazione di cinque milioni di persone appartenente ad oltre 100 popoli diversi, composti da famiglie giovani con figli, da lavoratori e lavoratrici, per metà donne. I minori sono 864.000. Nel 1990 erano 50.000. Questa popolazione vive prevalentemente nel Centro–Nord e si è insediata nei territori seguendo le esigenze del nostro mercato del lavoro.

Gli immigrati hanno contribuito e contribuiscono a rendere più giovane il nostro Paese.

Un sesto dei nuovi nati in Italia ha almeno un genitore straniero ed i giovani di origine straniera incidono di un decimo sulle classi di età più giovani (i minori ed i giovani fino a 39 anni).

Il 70% dei piccoli comuni, quelli con meno di 5000 abitanti, non attraggono nuovi cittadini e ben 2830, che sono circa la metà, sarebbero in irreversibile declino se non fossero arrivati gli immigrati a ripopolarli. Al Nord, al Centro ed al Sud.

Il lavoro immigrato anche in tempi di crisi economica non ruba posti agli italiani, perché occupa i segmenti del mercato del lavoro che agli italiani non interessano mentre l’invecchiamento della popolazione con il conseguente bisogno di servizi alla persona, anche per mancanza di servizi pubblici adeguati, lo ha reso e lo renderà sempre più necessario.

Se in Italia le porte fossero chiuse all’immigrazione, la popolazione giovane in età attiva tra i 20 e 40 anni scenderebbe tra il 2010 e 2030 da 15.4 a 11.3 milioni; una diminuzione di oltre 4 milioni; 200.000 unità in meno per ogni anno di calendario.

Né un alto tasso di attività e di occupazione degli italiani e una perfetta parità uomo– donna basterebbero ad evitare il nostro declino economico.

I nuovi europei
L’Europa è un caleidoscopio di culture diverse, è la parte del mondo culturalmente più eterogenea e gli europei vogliono conservare la propria eredità culturale ma, al contempo, hanno ed avranno bisogno degli immigrati.

La presenza degli immigrati anima conflitti, obbliga a confronti e crescita culturale collettiva, obbliga a ripensare lo stato sociale ed i diritti di cittadinanza che oggi, nella Europa unita, non possono più riguardare il singolo paese.

Mai come ora, infatti, la cittadinanza può e deve divenire il motore del processo di integrazione politica, il cuore di una nuova Europa che sia davvero spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Cittadinanza nel senso più ampio: non solo l’insieme dei diritti già riconosciuti ai cittadini europei e ancora da inverare pienamente, ma anche un nucleo forte di diritti di cittadinanza per tutte le persone che risiedono sul territorio dell’Unione europea, a comporre il mosaico di una vera e propria cittadinanza di residenza.

Con il Trattato di Lisbona la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea diviene giuridicamente vincolante e, con essa, la cittadinanza europea e i diritti che la compongono: il diritto di circolare liberamente e di stabilirsi in un altro Stato membro dell’Unione, portandosi dietro i propri diritti e acquisendo doveri, al pari dei cittadini di quello Stato.

Questo diritto, che è il cuore della cittadinanza europea, è oggi – non a caso – al centro di tensioni perché strettamente legato al concetto di uguaglianza. Occorre dare piena applicazione alla direttiva 38/2004, che ne regola l’esercizio, perché la libera circolazione sia garantita a tutti i cittadini europei, senza discriminazioni fondate sul reddito o sulla presunta appartenenza a un gruppo etnico.

Tuttavia bisogna impedire la competizione tra le componenti più deboli dei paesi dell’Unione. Per questo, a sostegno della libera circolazione, occorre una grande iniziativa europea per definire un reddito minimo garantito, come componente essenziale della cittadinanza, insieme alla definizione di politiche comuni di inclusione, integrazione, prossimità e sicurezza.

Cittadinanza europea, ma anche cittadinanza di residenza, dicevamo.

La presenza degli immigrati non solo è utile all’Europa per gli stessi motivi per cui è utile all’Italia, ma può contribuire a costruire il sogno europeo dell’unità nella diversità.

Oggi l’Europa ha nuovi strumenti per costruire questo sogno: con il Trattato di Lisbona la politica di immigrazione, nelle due dimensioni della politica di ingresso e della politica di contrasto all’immigrazione irregolare, diviene piena competenza comunitaria. Per la prima volta diviene possibile definire a livello dell’Unione i contorni di una politica di ingresso e soggiorno con il pieno coinvolgimento del Parlamento europeo.

Occorre cogliere questa occasione storica e costruire una nuova politica europea dell’immigrazione che realizzi il sogno europeo dell’unità nella diversità. Sviluppare una politica comune in materia di ingressi, di soggiorno, lavoro stagionale, diritto d’asilo e visti che ridefinisca le leve di un governo europeo dei flussi migratori e, al contempo, definisca un nucleo di forte di diritti fondamentali e di cittadinanza per tutti i migranti.

Il programma di Stoccolma, che definisce il quadro di azione quinquennale dell’Unione anche in questa materia, va rafforzato nella dimensione “positiva”, nel solco delle precedenti agende di Tampere e dell’Aia, promuovendo in seno al Parlamento europeo una forte azione per l’adozione di direttive espansive per l’ingresso e il soggiorno, a partire dalle recenti proposte sui lavoratori stagionali e su un permesso unico di soggiorno e lavoro.

In questa chiave, occorre aggiornare l’impostazione del Patto Europeo per l’immigrazione sottoscritto nel giugno 2008, le cui parole chiave sono prosperità, sicurezza e solidarietà, per progredire nella definizione di una politica comune anche nell’ambito dei diritti di cittadinanza. L’integrazione deve divenire l’elemento centrale nell’agenda europea e nel Patto, che la definisce come “la chiave” del successo dell’immigrazione, un processo a “doppio senso” che vede protagoniste le società ospitanti ma anche gli immigrati, attraverso un reciproco adattamento, in cui gli immigrati sono tenuti a rispettare le regole ed i valori dei paesi ospitanti ma sono anche sollecitati ad arricchirli attraverso la conoscenza reciproca, lo scambio umano e culturale.

Dai territori la via italiana alla convivenza

L’immigrazione sta cambiando la società italiana.

E’ un cambiamento molecolare e profondo che coinvolge i quartieri delle città, i comuni, le scuole, le aziende, gli ospedali.

Certo in questa Italia c’è chi ha paura degli immigrati, chi non li vuole per pregiudizi o ideologia, ma c’è anche chi ha saputo combattere la paura, chi guarda in faccia la realtà, chi affida a queste donne e a questi uomini stranieri quanto ha di più caro.

C’è chi costruisce, senza proclami o rumore, una civile convivenza quotidiana.

I protagonisti dell’Italia della convivenza sono i lavoratori e le lavoratrici, il giardiniere, la colf, la babysitter, la badante, le famiglie che diventano datori di lavoro, gli insegnanti, le piccole e le grandi imprese il sindacato, il volontariato, gli enti locali.

E tutto ciò sta succedendo dalla fine degli anni 70 realizzando, giorno dopo giorno, un modello che non tende all’assimilazione, ma alla convivenza fatta di integrazione sociale; educazione interculturale, interazione e reciprocità, mescolanza, condivisione di un patto di diritti e doveri, promozione della partecipazione alla vita pubblica. Insomma, “una via italiana alla convivenza”. Le istituzioni locali, non sempre, ma in molti casi, sono riusciti a coinvolgere attraverso la pratica della sussidiarietà i soggetti della società civile e del mondo economico in accordi di programma e piani di zona sociali. L’integrazione è dunque un processo che permea tutta la società coinvolgendo la dimensione economica, sociale, politica e religiosa.

Le esperienze maturate nei territori avevano avuto una traduzione legislativa, la legge 40/98 poi rielaborata dal decreto legislativo 288/98. Si era determinato in quegli anni e con i governi dell’Ulivo un processo virtuoso tra leggi e risorse nazionali, politiche locali, azioni della società civile. Ma questo processo si è interrotto con il governo Berlusconi. I comuni si sono trovati senza le risorse necessarie ad affrontare i problemi inediti e difficili della integrazione e della convivenza. Molti di loro hanno proseguito su questa strada e molte Regioni come l’Emilia Romagna, la Toscana, la Calabria e la Puglia hanno approvato leggi innovative per l’inclusione e la convivenza. Altri comuni, quelli del centrodestra, hanno scelto la strada della riduzione dei diritti degli immigrati in nome dello slogan “prima gli italiani”.

Vogliamo partire dai territori per conoscere l’Italia vera e profonda. Quella che non fa notizia. Vogliamo promuovere una “pedagogia dell’esperienza”, far conoscere i successi dell’integrazione, far leva sulla forza dell’esempio: “se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi”.

Quali immigrati? Quote, punti, capitale umano? Una riflessione di lungo periodo Chi sono gli immigrati? Con quali criteri vengono ammessi? Chi è il nuovo vicino di casa, il nuovo “compagno” di lavoro, il “nuovo” abitante del quartiere? Quali le garanzie che l’immigrazione non determini il degrado della comunità, dei diritti sociali, dei servizi pubblici?

Il nodo politico da affrontare è più che “quanti” immigrati, “quali” immigrati. Porre la questione della qualità significa porre esplicitamente quella della selezione. Quasi tutte le politiche migratorie attuate nel mondo hanno in sé dosi massicce di selezione più o meno esplicite. Lo sono le riserve geografiche, per le quali alcune provenienze vengono privilegiate rispetto ad altre, lo sono le quote riservate a categorie particolari di immigrati – imprenditori, investitori, scienziati, religiosi, calciatori.

Che un paese abbia una politica migratoria utilitaria non è uno scandalo, ma così facendo, si devono forse abbandonare i principi umanitari di accoglienza, così radicati nello spirito riformista? Sicuramente no. La politica a carattere umanitario può essere realizzata attraverso complesse politiche di aiuto allo sviluppo attualmente ridotte al lumicino, con una aperta e generosa politica dell’asilo. In numero assoluto i rifugiati in Italia sono un quindicesimo di quelli accolti in Germania, un quinto degli accolti in Gran Bretagna e un quarto degli accolti in Francia. Dunque, l’Italia può e deve fare di più.

Gli italiani sono ansiosi di sapere “quali” stranieri vengono ammessi: la risposta deve essere “quelli che sono utili al paese” ed i perseguitati, le vittime, le persone la cui vita ed incolumità è in pericolo.

Alcuni paesi di antica tradizione migratoria – Canada, Australia, Nuova Zelanda – e recentemente alcuni paesi europei – Gran Bretagna, Danimarca – hanno adottato regole di ammissione “a punti”. Altri paesi hanno in programma di adottarle. Il principio è semplice, e consiste nell’attribuire al candidato un punteggio per ogni caratteristica individuale di una determinata lista, e di farne la somma: chi supera una determinata soglia è ammissibile (in funzione delle “quote” o dei “tetti” numerici adottati). Normalmente si prendono in considerazione età, stato civile, grado di istruzione, conoscenza della lingua, della cultura o dell’ordinamento, capacità di guadagno o di produrre reddito, specializzazione lavorativa, talenti particolari. Ma si può immaginare di attrezzarsi per considerare altri elementi: per esempio, la composizione della famiglia e le relative caratteristiche, l’esigenza di legami con il paese, eventuali programmi (comprovabili) di inserimento. Naturalmente l’attribuzione del punteggio non deve essere distorta da elementi discriminatori: genere, razza, religione, opinioni, provenienza geografica. Un sistema di questo tipo ha il vantaggio della trasparenza e dell’obbiettività: la selezione è basata su criteri noti e (per quanto possibile) controllabili, ma poi… preferiamo i giovani agli adulti, i colti agli incolti, gli specializzati ai generici, le persone sole a quelle con famiglia? E perché? E in che misura? Le risposte a questi quesiti possono darsi in funzione di un metro di giudizio complesso, ma che si basa essenzialmente sul presunto contributo che una determinata “qualità” o “caratteristica” del candidato dà allo sviluppo della società e dell’economia e alla sua capacità di essere partecipe della società stessa (inclusione, integrazione, interazione…).

Non è (solo) l’esistenza di un posto di lavoro che determina l’ammissione dell’immigrato, ma anche la qualità del capitale umano, la capacità e la volontà di inclusione.

Questa proposta è una riflessione di lungo periodo che dobbiamo però formulare oggi, perché governare l’immigrazione significa di uscire dalla logica dell’emergenza e pensare alla società del futuro.

Le nostre proposte
•Residenza? Europa
•Casa nostra, casa loro.
•Chi nasce e cresce in Italia è italiano
•La scuola, per cominciare
•Chiudere la fabbrica della clandestinità con il lavoro legale e l’integrazione sui territori
•Votare per partecipare
•Moschee e burka, perché e come
•Respingimenti: leggi e diritti.
•Rom e Sinti, serve un piano
•PD, partito della convivenza tra italiani e immigrati

Residenza? Europa!
Il Governo chiama spesso in causa l’Europa per sollecitarla ad assumersi le sue responsabilità nel gestire i problemi dei richiedenti asilo, delle persone che sbarcano sulle nostre coste. Tace però sulle novità dell’Europa e non si impegna in modo adeguato a costruire una politica comune. Noi siamo impegnati a costruire una nuova politica europea a partire dalla novità del Trattato di Lisbona.

Con il Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1 dicembre 2009, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea assume forza giuridicamente vincolante. I diritti sanciti dalla Carta devono essere rispettati e promossi dall’Unione europea e dagli Stati membri.

La Carta, attraverso i suoi cinque titoli: dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, prevede un corpo di diritti che affermano in modo compiuto la dignità della persona e disegna un modello sociale inclusivo, definendo il quadro fondamentale di valori necessario per costruire il sogno europeo dell’unità nella diversità.

Molti diritti sanciti nella Carta sono diritti della persona e non solo dei cittadini europei.

Si tratta di una novità importante anche sul piano costituzionale, come hanno riconosciuto autorevoli costituzionalisti, perché fonda l’identità dell’Unione europea su di un nucleo di diritti fondamentali inviolabili comuni a tutti gli esseri umani.

La Carta dei diritti conferisce poi carattere costituzionale alla cittadinanza europea elencando i diritti specifici derivanti dall’essere cittadini di un Paese membro, tra cui il diritto a circolare liberamente sul territorio dell’Unione e di partecipare alle elezioni del Parlamento Europeo e alle elezioni comunali.

Occorre quindi partire dalla Carta dei diritti fondamentali per espandere il concetto di cittadinanza europea e fare evolvere i diritti di cittadinanza andando oltre il legame con l’appartenenza allo Stato nazione.

Dalla Carta dei diritti potrebbe scaturire una Carta Europea dei diritti dei migranti che attribuisca in modo esplicito ai migranti quelli che la Carta riconosce come diritti della persona.

Si potrebbe inoltre riprendere la battaglia per estendere ai migranti lungo-residenti la cittadinanza di residenza e consentire loro forme adeguate di partecipazione politica a livello locale in tutta l’Unione europea.

Casa nostra, casa loro
Gli accordi bilaterali avviati dai governi di centrosinistra (il 90% di quelli esistenti) hanno dimostrato di essere la strada più efficace per governare l’immigrazione. La Lega e il centrodestra ripetono “ aiutiamoli a casa loro”, ma il governo Berlusconi ha ridotto le risorse per la cooperazione allo sviluppo e l’Italia è fanalino di coda in Europa. Nella Finanziaria 2009 sono scese ad un ammontare di circa 322.000.000 di euro e sono state ulteriormente ridotte del 56% in quella 2010. Bisogna invece estendere quegli accordi e rendere operative intese che prevedano l’impegno reciproco per il contrasto all’immigrazione clandestina- terreno su cui l’Italia deve migliorare e non recedere – e l’ingresso di quote regolari tra mercati del lavoro nazionali, mercato unico europeo, area Schengen, all’interno di una politica estera di pace, collaborazione e cooperazione.

La dimensione puramente nazionale, però, non è sufficiente a governare un fenomeno che è per sua natura sovranazionale.

L’Unione europea è impegnata da tempo nella definizione di accordi bilaterali in materia di immigrazione con i Paesi terzi di origine e transito dei flussi migratori che interessano il continente. Occorre fare incrociare questo sforzo con la dimensione nazionale, facendo in modo che gli accordi europei siano sempre più il quadro politico generale e la cornice di principi entro cui definire gli accordi bilaterali nazionali, a partire dalla necessità comune di rispettare e promuovere i diritti fondamentali e in particolare il diritto a richiedere asilo, di recente sottoposto a notevoli tensioni nell’applicazione concreta delle politiche nazionali di riammissione.

Bisogna collegare tra loro le politiche migratorie con quelle di promozione dello sviluppo all’interno di una politica estera di pace, collaborazione e cooperazione. Bisogna puntare su un nuovo approccio integrato tra mercati del lavoro nazionali, mercato interno europeo, area Schengen e flussi migratori.

Va attribuita una particolare attenzione da parte di tutta l’Unione Europea ai problemi dell’Africa, alle sue potenzialità ed ai suoi drammi perché non debbano essere i Paesi più esposti, come il nostro, a farsene carico.

Il Programma di Stoccolma, in linea anche con il Patto Europeo sull’immigrazione, impegna l’Unione europea a “collaborare strettamente con i paesi africani al fine di attuare insieme il Processo di Rabat del 2006 sulle migrazioni e sullo sviluppo” e a potenziare il partenariato politico UE – Africa in materia di migrazione, mobilità e occupazione. In generale, il Programma di Stoccolma prevede il potenziamento dei partenariati di mobilità tra l’Unione e i Paesi terzi, sviluppando il concetto già noto di migrazione circolare. E’ necessario operare affinché questo concetto non riduca il lavoratore migrante a essere un lavoratore ospite nella società di accoglienza, senza uno status e destinato a non restare.

Il concetto di immigrazione circolare deve avere al centro il lavoratore migrante come portatore di diritti, soggetto attivo di un processo di integrazione e inclusione nelle società europee, dove il rapporto con i Paesi di provenienza diventa centrale in una prospettiva di co-sviluppo. In questo processo è importante promuovere una politica europea di valorizzazione non soltanto delle rimesse, ma anche del patrimonio culturale e professionale accumulato nell’esperienza migratoria.

E’ inoltre necessario rilanciare il partenariato economico, sociale, politico per lo sviluppo tra l’Unione europea e i Paesi del mediterraneo e di Africa, Caraibi e Pacifico, che deve avere al centro l’intensificazione delle politiche di co-sviluppo attraverso la collaborazione paritaria tra territori, istituzioni, con il coinvolgimento delle imprese e delle ONG. L’obiettivo è quello di attivare le capacità e le risorse dei paesi poveri ed in via di sviluppo per renderli protagonisti delle loro crescita economica e sociale.

Gli immigrati e le loro associazioni possono essere attori dello sviluppo e potenziare quell’identità transnazionale di chi vive simultaneamente in due società diverse, che connota molti di loro e che può costruire dei ponti tra le popolazioni.

Vanno promosse politiche di sostegno da parte dei governi dei paesi d’origine, del governo e del parlamento italiano, degli enti locali, del terzo settore, del sistema economico e finanziario, delle università. Come indicato nel recente “manifesto migrazioni e sviluppo” promosso dal Laboratorio migrazioni e sviluppo che raccoglie importanti centri di ricerca ed associazioni del nostro Paese.

Chi nasce e cresce in Italia è italiano
Sono 864.000 i figli degli immigrati che vivono in Italia.

Ogni anno ne nascono 50.000 in tutto. Nel 1992 erano 50.000.

50.000 – 864.000: in queste cifre è scritto il cambiamento che l’Italia ha vissuto nell’arco di 20 anni. Questi bambini e ragazzi crescono con i nostri figli, frequentano le nostre scuole, i nostri centri sportivi, le nostre piazze, le nostre discoteche.

Sono italiani di fatto, ma stranieri per la legge perché la nostra legge sulla cittadinanza obbliga a risiedere in modo continuativo per 18 anni nel nostro Paese prima di poter rivolgere la domanda per ottenerla. In nessuno stato europeo esiste una legge così ostile nei confronti dei minori.

Bisogna preparare questi figli dell’immigrazione ad essere membri a pieno titolo della nostra comunità. E per questo bisogna modificare la legge in vigore sulla cittadinanza (L. 191 del 1992) e prevedere che i figli di genitori stranieri, da alcuni anni residenti nel nostro Paese, che nascono in Italia o che arrivano bambini in Italia, al momento della nascita o quando concludono il primo ciclo scolastico possono essere riconosciuti come cittadini italiani.

La scuola, per cominciare
Alla mamma italiana il cui figlio si trovo solo in una classe di immigrati, alla mamma straniera che deve prendere due pullman per portare il figlio a scuola, diciamo che il loro è un caso estremo e che può essere evitato con una buona programmazione scolastica.

La nostra scuola sta diventando sempre più una scuola a colori. Gli alunni figli di immigrati sono, senza contare i casi estremi che fanno notizia e destano preoccupazione, il 7% della popolazione scolastica. Prezioso è, in tutto questo, il lavoro silenzioso degli insegnanti che fanno della scuola pubblica italiana una formidabile fucina della convivenza e che dimostrano concretamente come la mescolanza sia una strada che offre opportunità formative maggiori per i nostri ragazzi.. Siamo impegnati a sostenere questo carattere inclusivo, pubblico ed universalistico della scuola e a contrastare le gravi politiche del Governo. Il primo passo resta l’apprendimento della lingua e della cultura italiana per i bambini e per gli adulti. Per questi ultimi proponiamo un programma nazionale della scuola pubblica in sinergia con il volontariato e le associazioni e le imprese.

Con “ l’accordo di integrazione” (articolo 25 della legge 94 del 2009) il Governo introduce una grave previsione, quella della espulsione del cittadino che nel corso di due anni dal suo ingresso in Italia non raggiunge un determinato livello di apprendimento della lingua e cultura italiana, senza peraltro mettere a punto un programma nazionale che prevede opportunità concreta ma rinviando tutta la responsabilità agli enti locali ed al volontariato.

Attraverso un apposito disegno di legge il PD propone un sostegno pubblico per l’apprendimento della lingua e cultura italiana – riteniamo la conoscenza dell’italiano elemento imprescindibile per la popolazione immigrata.- che mette a disposizione opportunità concrete da parte dello Stato, in accordo con le Regioni, gli enti locali ed il volontariato, rilancia le 150 ore per i lavoratori sollecitando le imprese ed i sindacati a realizzare accordi di integrazione.

Chiudere la fabbrica della clandestinità con il lavoro legale e l’integrazione sui territori
All’operaio che perde il lavoro, al giovane precario che non lo trova diciamo che non devono arrabbiarsi con gli immigrati e temere la loro concorrenza. Dobbiamo invece promuovere insieme un patto per la dignità e la legalità del lavoro che combatta lo sfruttamento, il lavoro sommerso e irregolare che colpisce gli italiani e gli immigrati.

All’interno del patto per il lavoro proponiamo una piattaforma per il lavoro legale, contro lo sfruttamento che vogliamo far vivere in Parlamento, nel confronto con le parti sociali ed i lavoratori italiani e immigrati.

Ecco i punti della nostra piattaforma: utilizzare tutti gli strumenti già disponibili per l’emersione del lavoro irregolare. A questo scopo occorre che sia perseguita con energia il contrasto all’economia sommersa, le cui dimensioni abnormi sono, nel nostro Paese, potente fattore attrattivo dell’irregolarità; prevedere l’introduzione del nostro ordinamento del reato di grave sfruttamento del lavoro (caporalato), aggravato quando interessa minori e migranti clandestini; prolungare la durata del tempo per il rinnovo del permesso di soggiorno quando si perde il lavoro ed estendere ai lavoratori immigrati gli ammortizzatori sociali previsti per i lavoratori italiani; ridurre i tempi per il rilascio ed il rinnovo dei permessi di soggiorno; adottare forme di regolarizzazione ad personam per evitare il formarsi di periodiche “bolle” di irregolarità che poi comportano il ricorso alle periodiche sanatorie. Tali regolarizzazioni dovrebbero essere attuate sulla base di requisiti: il lavoro, la casa, il rispetto delle leggi, la buona integrazione. Potrebbe riguardare coloro che contribuiscono all’individuazione di fattispecie criminali legate all’immigrazione; per coloro che compiono atti di rilevanza umanitaria e sociale; riattivare le quote dell’ingresso regolare e semplificare le procedure, incentivare e semplificare, in accordo con le Regioni, l’applicazione dell’articolo 23 del decreto legislativo 296/98 relativamente alla formazione di personale all’estero da parte delle aziende, applicare l’articolo 18 del decreto legislativo 286/98 che prevede un permesso di soggiorno umanitario per le persone che denunciano i propri sfruttatori; applicare la direttiva del 18 giugno 2009 che impegna gli Stati membri dell’Unione Europea a sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare; incentivare il rimpatrio volontario degli irregolari sulla base di quanto previsto dalla direttiva europea 2008/115/EC; prevedere l’inserimento dei rifugiati e delle persone vittime di tratta tra le categorie svantaggiate che possono essere inserite nella cooperazione sociale attraverso la modifica della legge 382/91 sulla cooperazione sociale.

Ai datori di lavoro che cercano lavoratori immigrati e li vogliono tenere in regola, al lavoratore immigrato che rischia di essere espulso perché ha perso il lavoro, alla badante che è stata ingannata dalla recente sanatoria, a quelli che sono diventati irregolari grazie alla Bossi – Fini proponiamo di impegnarsi per una profonda modifica delle politiche del Governo. In particolare siamo interessati ad un confronto con i datori di lavoro e i sindacati per discutere insieme le modalità più efficaci per consentire l’ingresso regolare per lavoro. Infatti per combattere l’immigrazione clandestina bisogna promuovere l’immigrazione legale e regolare e rendere conveniente l’ingresso regolare per lavoro.

Infatti, il Governo Berlusconi ha bloccato l’ingresso regolare per lavoro dal 1 gennaio 2009, non ha presentato nessun decreto flussi se non quello riguardante il lavoro stagionale; non ha presentato il piano triennale delle politiche migratorie interrompendo così l’azione di programmazione dei flussi e delle politiche d’integrazione avviato dal centro- sinistra.

Non ha stipulato nuovi accordi bilaterali. Non ha ancora recepito la Direttiva Europea del 18 giugno 2009 contro lo sfruttamento del lavoro degli immigrati irregolari attraverso sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi con il soggiorno irregolare.

La propaganda leghista sbandiera successi sul fronte anti-immigrati, ma chiudendo l’ingresso regolare, si incentiva di fatto quello irregolare. Le impervie norme relative all’ingresso regolare contenute nella Bossi – Fini incentivano l’irregolarità, cosicché il Governo è costretto a fare le sanatorie, come quella del 2001, la più grande sanatoria d’Europa! L’esame dei decreti flussi e delle regolarizzazioni nel periodo 1998- 2009 mette in evidenza dati molto interessanti.

Il centrosinistra in cinque anni di governo aveva programmato 948.400 ingressi di cui 199.400 per stagionali (21%) e 749.000 per lavoro subordinato e autonomo; ha regolarizzato 214.000 persone per un totale di 1.162.400.

Il centrodestra in sei anni di governo aveva programmato 853.500 ingressi di cui 383.500 per lavoro stagionale (45%) e 500.000 per lavoro subordinato e autonomo; ha regolarizzato 944.744 persone per un totale complessivo di 1.828.244.

Per questo bisogna cambiare radicalmente le norme contenute nella Bossi–Fini e nella recente legge 164 sulla sicurezza. Il PD propone una cancellazione delle nuove norme contenute in quel “pacchetto” a partire dal reato di immigrazione clandestina ed una revisione dell’intera normativa ispirandosi alla legislazione dei governi dell’Ulivo: la legge 40/98, il decreto legislativo 286/98, la legge Amato- Ferrero. Tale legislazione ha dimostrato di essere efficace e lungimirante ed era basata su tre pilastri: contrasto dell’immigrazione irregolare, ingresso regolare per lavoro, politiche d’integrazione.

La nuova normativa dovrà introdurre nuove vie di accesso legale. Ecco alcune proposte: ingresso per ricerca di lavoro sponsorizzata e garantita da istituzioni ed organizzazioni certificate (sindacati, associazioni di imprenditori, istituzioni pubbliche); ingresso per ricerca di lavoro su domanda dei singoli, dietro prestazioni di garanzia da parte del richiedente entro tetti numerici prefissati; la conversione del permesso di soggiorno ad altro titolo in permesso di soggiorno per lavoro, in presenza di determinate condizioni; l’ingresso di persone con profili professionali di alta qualità che apportino particolari contributi alle conoscenze scientifiche e tecnologiche, o alla qualità anche artistica della produzione, o che esercitino attività di riconoscimento e particolare valore sociale.

I vari canali d’ingresso legale hanno una natura complementare e per ciascuno di essi può essere posto un tetto numerico, modulandone il funzionamento, così da sperimentarne l’efficienza.

Una buona politica migratoria deve fondarsi anche sulla adozione di metodi scientifici adeguati per determinare la possibile domanda di lavoro straniero e le concrete possibilità di integrazione. La conoscenza di grandezze plausibili e non di valutazioni di parti interessate è una buona guida per la programmazione di medio e lungo periodo. Bisogna pertanto semplificare il sistema delle quote passando dal decreto annuale, elaborato dalle strutture ministeriali, con vincolo amministrativo e contenente una misura quantitativa rigida, ad un documento pluriennale elaborato da una agenzia tecnica che indica le esigenze del mercato del lavoro, i profili professionali neces- sari, la capacità di accoglienza del nostro Paese e le politiche di inclusione necessaria.

La macchina amministrativa che gestisce l’immigrazione deve essere messa in condizioni di operare con efficienza e rapidità e necessità di forti investimenti.

Gli immigrati rappresentano il 7% della forza lavoro del nostro paese, con stipendi netti attorno ai 900 euro mensili ed un’età media di 15 anni più bassa di quella degli italiani, costituiscono l’1% del gettito fiscale complessivo, hanno fatto lievitare di circa l’1% la spesa pubblica nei settori del welfare, forniscono il 4% dei contributi previdenziali, ricevendo per ora una quota minima dei trattamenti pensionistici.

Dunque, non è vero come dice la Lega che gli immigrati abusano dei servizi sociali e delle case popolari. Lo slogan “prima gli italiani” racconta una bugia e nasconde il vero problema che si può formulare così: quando la coperta è stretta aumentano coloro che stanno fuori e si accendono conflitti. La coperta stretta l’ha creata il Governo con i tagli pesanti al welfare. Se si ridimensiona il Welfare ed il suo perimetro pubblico, se si procede per tagli ai servizi sociali allora è la scarsità che crea la concorrenza ed alimenta i conflitti.

Un Welfare della sicurezza per tutti, immigrati compresi, costruisce una rete integrata di servizi sociali e sanitari, facilita l’accesso ai servizi sanitari, investe sull’edilizia popolare, si dota di una misura universalistica di lotta alla povertà (come il reddito di solidarietà attiva), promuove la scuola pubblica, sostiene le famiglie nei loro compiti.

Arriva a tutti coinvolge tutti prevedendo una compartecipazione ai costi sulla base dei redditi.

In tutto questo rientra anche la promozione di un percorso di integrazione per ciascuna persona straniera che deve partire dall’apprendimento della lingua, della cultura, delle regole del nostro Paese ed il rispetto di queste ultime.

Promotore e garante della politica di integrazione è l’ente locale che attiva l’impegno delle forze economiche e sociali, del volontariato ed inserisce le politiche di integrazione nell’ambito della programmazione delle politiche sociali, educative e dell’inserimento lavorativo.

Ai Comuni devono essere trasferite le competenze del rinnovo del permesso di soggiorno e tale scadenza può diventare l’occasione per verificare lo stato si attuazione del percorso di integrazione di ciascuna persona, attraverso adeguati strumenti istituzionali. Si potrebbe anche approntare un sistema di incentivi per premiare i successi dell’integrazione.

Votare per partecipare
Il diritto di voto amministrativo per gli immigrati rientra dentro il processo di “manutenzione” della democrazia. La partecipazione politica in forme uguali agli italiani facilita la collaborazione e la ricerca di interessi comuni, favorisce l’apprendimento di regole e pratiche democratiche, incentiva l’integrazione politica ed abbassa i rischi di conflitto interetnico e di corporativismo.

La proposta sul diritto di voto agli immigrati contiene sia l’istanza della democrazia inclusiva, che quella della lealtà verso la nazione. In tal modo i nuovi cittadini appren- dono le regole e i valori del nostro ordinamento, ma sono chiamati anche ad arricchirli contribuendo a costruire un orizzonte condiviso di valori in cui ciascuno può riconoscersi perché è stato coinvolto a dare il proprio contributo.

Una legge per il diritto di voto deve partire dal recepimento, attraverso legge ordinaria, della Convenzione promossa dal Consiglio d’Europa sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, stipulata nel 1992, entrata in vigore nel 1997 e che il nostro Paese nel 1994 attraverso la Legge n. 204 aveva recepito escludendo la parte sul diritto di voto locale.

Moschee e burka, perché e come
La Costituzione della nostra Repubblica prevede nei suoi diversi articoli la libertà religiosa e il suo esercizio quale diritto umano fondamentale della persona. Attraverso lo strumento delle intese tra Stato italiano e confessioni religiose, l’esercizio di questo diritto è ampiamente riconosciuto e praticato nel nostro Paese. Proprio per questo non si può continuare ad eludere la questione dell’esercizio della religione musulmana, la seconda religione d’Italia. Per rispettare i diritti umani fondamentali e per tutelare la sicurezza della comunità. L’Italia non può continuare ad essere uno stato in cui i musulmani non abbiano luoghi di preghiera e si riuniscano in contesti degradati ed insicuri. Il PD ha presentato un disegno di legge per garantire il diritto costituzionale della libertà religiosa. La Carta dei Valori adottata dal Governo Prodi è il punto di riferimento. Molti comuni stanno aprendo luoghi di culto sulla base di accordi con le comunità musulmane che definiscono regole, doveri e diritti vincolanti per tutti. Dimostrando così che gli italiani possono vivere tranquilli e sicuri in un quartiere o in comune in cui c’è la moschea. Sarebbe importante che l’ANCI e il Governo facessero conoscere queste esperienze positive e le promuovessero come esempio ed indirizzo di una politica nazionale.

E’ inoltre essenziale che il Governo solleciti le molte comunità musulmane a costruire tra loro un punto di sintesi per definire finalmente l’Intesa tra lo Stato e questa importante religione.

Dobbiamo dire anche la nostra opinione sul burka, ben sapendo che riguarda pochissime persone e che, pur agitato ad arte per creare paura e rifiuto del diverso, non è tra i primi pensieri degli italiani. La nostra risposta è: nei luoghi pubblici o aperti al pubblico è consentito l’uso di qualunque indumento religioso purché liberamente scelto e portato lasciando il volto scoperto.

Respingimenti: legge e diritti
Il diritto di richiedere asilo e il diritto di non essere respinti verso un Paese dove si corra il rischio di morte o di subire trattamenti disumani e degradanti sono sanciti dalla Convenzione di Ginevra e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Le intercettazioni in mare ed i riaccompagnamenti all’origine sono leciti solo nel pieno rispetto dei diritti umani a partire dal diritto del migrante intercettato di avan- zare domanda di asilo e di protezione umanitaria. I dati forniti dall’UNHCR relativi alle domande di asilo nel 2009 registrano un forte calo e sono la conferma che la politica del Governo sui respingimenti in mare mette di fatto in discussione l’applicazione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati perché essi non consentono all’immigrato di attivare le procedure per richiedere asilo. Ecco le cifre: nel 2008 le domande di protezione internazionale sono state 31.097, in linea con la media europea; nel 2009 le domande di protezione internazionale sono state 17.603; al mese di giugno 2010 le domande di protezione internazionale erano circa 5000 e questo fa presagire un saldo ancora più basso degli anni scorsi.

Altri paesi europei, che hanno adottato una legislazione rigida in materia di immigrazione, non hanno arretrato dall’impegno per il diritto di asilo. Anzi: la Germania nel 2009 ha registrato 28.000 domande di asilo ovvero + 25% del 2008 (22.000); la Francia nel 2009 ha registrato 42.000 domande di asilo ovvero + 20% del 2008 (35.400).

Ci sono punti irrinunciabili per garantire il rispetto della Convenzione di Ginevra: Nel caso di riaccompagnamento o respingimento al paese d’origine/transito, al migrante deve essere garantito il diritto di rivolgere domanda di asilo per il tramite dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Le domande devono essere esaminate con le garanzie giuridiche prescritte ed in tempi ragionevoli. Queste condizioni oggi non esistono.

Deve esserci accordo tra il paese di destinazione degli intercettati/riaccompagnati, il paese che opera l’intercettazione e gli altri paesi europei sui criteri per l’insediamento di coloro la cui domanda di asilo è stata accolta. Ricordiamo che un criterio proporzionale (il PIL di ogni paese, per esempio) di ridistribuzione dei richiedenti asilo tra i 27 paesi europei, addosserebbe all’Italia un numero di ospiti maggiore dell’attuale.

Per quanto riguarda il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia, entrato in vigore il 2 marzo 2009, il Governo italiano deve applicarlo in tutte le sue parti, a partire dagli articolo 1 e 6 che impegnano le parti ad adempiere agli obblighi “derivanti dai principi e dalle norme del Diritto Internazionale universalmente riconosciuti”; deve intervenire sul Governo libico perché sia riattivato l’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, gestito da una commissione mista libico-europea, per consentire l’attivazione della procedura del diritto d’asilo; deve inoltre rispettare l’ordine del giorno presentato dal PD al Senato e accolto dal Governo per un coinvolgimento del Parlamento medesimo nella gestione dell’Accordo Italia – Libia.

Il Governo italiano deve impegnarsi inoltre a promuovere e sostenere una politica europea per il diritto d’asilo, un sistema di asilo europeo che definisca una procedura comune ed uno status uniforme per la tutela della persona rifugiata, deve dotarsi di un ufficio europeo per il supporto dell’asilo, deve rafforzare la solidarietà intracomunitaria per l’accoglienza degli asilanti.

Rom e Sinti, serve un piano
Dalle persone Rom bisogna esigere il rispetto delle regole. E al contempo offrire loro le opportunità di inserimento nella società. A partire dall’obbligo scolastico dei bambini e dal superamento dei campi rom, dannosi sia per i Rom che per i cittadini italiani. Esistono in Italia molte esperienze positive di integrazione. L’Unione Europea ha messo a disposizione da anni risorse per l’integrazione della comunità Rom, il Governo italiano deve definire un Piano Nazionale di integrazione attraverso l’istituzione di un tavolo congiunto tra Regioni, Comuni e rappresentati delle comunità Rom.

PD, partito della convivenza tra italiani e immigrati
I circoli del PD possono e devono diventare protagonisti della civile convivenza attraverso un lavoro sul territorio che coinvolga i cittadini italiani e gli immigrati. Possono e devono favorire l’incontro e la conoscenza reciproca, attraverso attività concrete come il coinvolgimento delle associazioni degli immigrati, i corsi di lingua e cultura italiana, la conoscenza e la promozione delle altre culture, il coinvolgimento dei giovani e delle donne. Ci sono esperienze importanti come quella del Circolo Esquilino a Roma o i Circoli di Via Padova a Milano.

Proponiamo inoltre la costruzione dei Forum PD sull’immigrazione in ogni città capoluogo del nostro Paese: luoghi aperti di confronto e iniziativa tra tutti i soggetti che operano sul tema dell’immigrazione.

Proponiamo di elaborare un Rapporto sull’Italia della convivenza che raccolga le esperienze costruite nei territori che raccontano i successi e le possibilità della convivenza per arrivare ad una Conferenza Nazionale.

Proponiamo inoltre di tenere una Conferenza su una nuova politica europea dell’immigrazione ed una dedicata ai rapporti con i paesi del mediterraneo e alle politiche di cooperazione allo sviluppo.

Vogliamo promuovere la partecipazione politica degli immigrati e la loro assunzione di responsabilità nella vita del PD. La classe dirigente del nostro paese sarà nuova e dinamica se sarà composta anche dai nuovi italiani.

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