IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE PUÒ ANCHE CONSERVARE IL SUO CONTENUTO ATTUALE, MA A CONDIZIONE CHE GLI SI ATTRIBUISCA SOLTANTO IL VALORE DI UNA RETE DI SICUREZZA, CIOÈ DI UNA DISCIPLINA APPLICABILE PER DEFAULT, IN TUTTI I CASI IN CUI MANCHI UNA DISCIPLINA NEGOZIATA A UN LIVELLO PIÙ VICINO AL LUOGO DI LAVORO, AD OPERA DI UNA COALIZIONE SINDACALE CHE ABBIA I REQUISITI DI RAPPRESENTATIVITÀ NECESSARI PER FARLO
Intervista a cura di Francesco Riccardi pubblicata da l’Avvenire il 13 ottobre 2010
«Nessuna violazione di legge, né una situazione del tutto inedita. Ma c’è la necessità di arrivare a fissare nuove regole per la rappresentanza e la firma dei contratti». Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd parla così delle relazioni industriali dopo l’accordo per Pomigliano e l’intesa sulle modifiche al contratto nazionale dei metalmeccanici, firmata da Federmeccanica assieme a Fim-Cisl e Uilm.
Facciamo anzitutto chiarezza: davvero le richieste della Fiat, inserite nell’accordo firmato da Fim, Uilm, Ugl e Fismic, contengono violazioni di legge?
La Fiom-Cgil denuncia violazioni della legge nelle clausole in materia di malattia e di sciopero. Ma la materia del trattamento di malattia è interamente demandata dalla legge alla contrattazione collettiva. Quanto al diritto di sciopero, la Costituzione ne affida la regolazione alla legge ordinaria, la quale nulla dice sulle clausole di tregua. Dove possono essere, dunque, le violazioni?
Perché, allora, da parte di Fiom, Cgil e molta stampa si è parlato addirittura di attacchi alla Costituzione, di “smantellamento” dei diritti dei lavoratori? Non siamo, più semplicemente, nel campo della contrattazione tra le parti?
La verità è proprio questa. L’accordo di Pomigliano non presenta alcun attrito con la legge: lo presenta soltanto, e per alcuni aspetti molto marginali, con il contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico. La Fiom denuncia una violazione della legge perché è facile mobilitare l’opinione pubblica per difendere la legge, mentre è molto più difficile mobilitarla per difendere la rigida inderogabilità di un contratto collettivo nazionale. Soprattutto quando è in gioco un investimento di enorme importanza in una zona molto povera di lavoro regolare, come la Campania.
Dalla nostra ricognizione è emerso che, di fatto, si sono firmati negli anni moltissimi accordi in deroga alle previsioni del contratto nazionale; dunque anche il caso di Pomigliano non costituisce un’eccezione. Perché allora uno scontro così acceso?
È vero, nell’ultimo quarto di secolo al livello aziendale sono state negoziate molte modifiche rispetto ai contratti nazionali; ma sono sempre stati accordi firmati da tutti i sindacati maggiori insieme. Nel contesto attuale, infatti, se non firmano insieme Cgil Cisl e Uil, le modifiche non hanno efficacia per tutti i dipendenti dell’azienda. Per questo, nella situazione attuale di contrasto tra le confederazioni maggiori, è indispensabile una cornice di regole di democrazia sindacale che consenta di evitare la paralisi nei casi di divergenza insanabile.
Chi dovrebbe dettare queste regole?
L’ideale sarebbe che fosse il sistema stesso delle relazioni industriali a porle, con un accordo interconfederale sottoscritto da tutte le associazioni sindacali e imprenditoriali maggiori. Ma se questo tarda ad avvenire, deve essere il legislatore a farlo, in via sussidiaria e provvisoria.
Anche la Fiat, però, questa estate ha dato l’impressione di voler forzare la situazione. C’è chi l’ha giudicata una sferzata utile e chi invece una drammatizzazione eccessiva. Lei come giudica la richiesta di un contratto specifico per l’auto?
Ho criticato la scelta di licenziare i tre sindacalisti della Fiom dello stabilimento di Melfi: per la mancanza che è stata loro contestata sarebbe stato adeguato e molto più saggio un provvedimento di sospensione disciplinare. Non mi sembra, invece, sbagliata l’idea di un contratto nazionale per il settore auto: oggi il contratto dei metalmeccanici copre settori troppo diversi tra loro, dall’aerospaziale alle fonderie, dalle case di software all’automobile, alle imprese di piccola manifattura. La sola alternativa sarebbe ridurre drasticamente il contenuto del contratto nazionale, per consentirgli di continuare ad applicarsi a realtà così eterogenee; ma in questo modo si ridurrebbero le protezioni per tutti i lavoratori delle imprese dove la contrattazione aziendale non arriva.
E la richiesta, ora, di un impegno da parte di tutti i sindacati, al quale la Fiat subordina l’avvio concreto del piano per Fabbrica Italia?
È la conseguenza dell’assenza della cornice di regole di cui abbiamo parlato prima. Nel contesto attuale, se si vuole evitare la paralisi, occorre che tutti i sindacati siano d’accordo.
La scelta di dare maggior peso al contratto aziendale e di prevedere la derogabilità del contratto nazionale è una via utile per il sistema economico e per i lavoratori?
Ho scritto un libro per rispondere a questa domanda: “A che cosa serve il sindacato” (Mondadori, 2005). La mia risposta è questa: il contratto collettivo nazionale può anche conservare il suo contenuto attuale, ma a condizione che gli si attribuisca soltanto il valore di una rete di sicurezza, cioè di una disciplina applicabile per default, in tutti i casi in cui manchi una disciplina negoziata a un livello più vicino al luogo di lavoro, dalla coalizione sindacale che abbia i requisiti di rappresentatività necessari. Così si manterrebbe la copertura dell’intero settore, garantita dal contratto nazionale, ma si aprirebbe la porta, nelle aziende, ai piani industriali innovativi.
Il clima sociale si sta surriscaldando. Ci sono state le contestazioni a Bonanni e a lei stesso, gli assalti alle sedi Cisl. Come si possono evitare rischi maggiori senza cedere ai violenti?
La cornice di regole di cui abbiamo parlato aiuterebbe molto a svelenire il clima. Ne conseguirebbe un sistema nel quale anche un dissenso insanabile tra i sindacati maggiori non produce la paralisi. E nel quale anche il sindacato che si trova in minoranza, e che per questo non ha firmato il contratto, resta tuttavia titolare dei diritti di agibilità in azienda, in un rapporto di rispetto reciproco con i sindacati della coalizione maggioritaria.