PERCHE’ NON E CONTRADDITTORIO PROPORRE LA PARIFICAZIONE TRA UOMINI E DONNE SUL PIANO DEL TRATTAMENTO PENSIONISTICO E AL TEMPO STESSO LA DETASSAZIONE SELETTIVA DEL LAVORO FEMMINILE
Trascrizione della registrazione dei miei interventi al Forum promosso dal Partito radicale a Roma il 9 dicembre 2008, sul tema: In pensione quando? Al lavoro come? Donne, crisi economica, vulnerabilità sociale, occupazione, equiparazione
[Omissis]
MYRTA MERLINO (moderatrice). Ringrazio le sindacaliste e adesso chiederei di raggiungerci al tavolo della presidenza a Francesca Maria Marinaro, Donatella Poretti e Pietro Ichino.
Allora, dato che siamo cavallereschi facciamo intervenire prima gli uomini che sono oggi in netta minoranza una volta tanto; quindi partirei da Pietro Ichino. Pietro Ichino come ricordavo prima aveva fatto una proposta assieme ad Alberto Alesina sul detassare il lavoro femminile senza che ci fossero problemi o diminuzione del gettito. Io forse, dato che è stato introdotto questo tema della leva fiscale, forse ripartirei da qui per poi invece approdare anche al tema pensioni e età pensionabile, sul quale pure ci sta a cuore, naturalmente, il tuo parere.
PIETRO ICHINO. La proposta è di mio fratello Andrea; ma la condivido totalmente. Come molte altre nostre idee, anche questa nasce da dialoghi e scambi molto intensi nei quali lui insegna a me qualcosa di economia e io forse gli insegno qualcosa di diritto. La proposta che è stata citata è quella della detassazione selettiva, cioè di una detassazione che dia un robusto incentivo al lavoro femminile, in funzione del perseguimento dell’obiettivo di Lisbona, cioè di un tasso di occupazione femminile del 60%.
L’argomento economico a sostegno di questa proposta è fortissimo: si osserva che domanda e offerta di lavoro femminile sono molto più elastiche, mediamente, di domanda e offerta di lavoro maschile: quindi cento euro spesi dall’erario per incentivare il lavoro femminile rendono molto di più, in termini di aumento del tasso di occupazione, di quanto non renderebbero se spesi sul lavoro maschile o in modo indifferenziato.
L’obiezione che viene mossa a questa scelta è invece essenzialmente di carattere giuridico: “non è consentito porre in essere una discriminazione di questo genere e di questa entità fra i due generi”. Io credo che l’obiezione sia superabile, anche se non mi nascondo che il problema c’è, anche perchè sul punto mancano giurisprudenza e dottrina, in quanto la cosa non è ancora stata sperimentata. Ma a me sembra che il divieto comunitario non si applicherebbe se la misura venisse impostata e motivata come “azione positiva”, finalizzata all’obiettivo di Lisbona, quindi all’adempimento di un obbligo comunitario di superamento di una situazione oggettivamente discriminatoria (adempimento di un obbligo nascente da soft law, ma pur sempre adempimento di un impegno assunto sul piano comunitario), quindi come misura a termine: conseguito l’obiettivo di una parità sostanziale, la misura recede e gradualmente viene riassorbita. Messa in questi termini, io sono convinto che la misura potrebbe agevolmente superare il vaglio della Corte di Giustizia. Anche perchè le sentenze della Corte di Giustizia come questa ultima sulle pensioni si pongono in una posizione di rottura non rispetto a iniziative di questo genere, come quella della detassazione selettiva, ma in riferimento al vecchio impianto protettivo del lavoro e del lavoro femminile in particolare.
Io vedo, per questo aspetto, una forte analogia tra il dibattito a cui abbiamo assistito oggi e che si sta sviluppando nel Paese, nei seminari, nelle università, sull’ultima sentenza in materia di età di pensionamento di pochi giorni or sono, e il dibattito che si sviluppò nella seconda metà degli anni ’90 sulle sentenze della Corte di Giustizia sul lavoro notturno, quando la Corte di Giustizia vietò di vietare il lavoro notturno alle donne (sentenze Stoeckel 1991 e C.E. contro Repubblica Francese 1997); ma anche sulle sentenze che vietarono agli Stati membri di vietare i servizi privati di collocamento nel mercato del lavoro (sentenze Macrotron 1991 e Job Centre 1997. Erano sentenze che si ponevano in una logica complessiva diametralmente opposta rispetto alla logica della protezione a cui eravamo abituati. In sostanza, la Corte diceva: “ciò che rafforza il lavoratore o la lavoratrice è l’avere maggiori possibilità nel mercato, avere maggiore possibilità di scelta; più scelta gli è data, più il lavoratore è forte; se voi restringete le possibilità di scelta del lavoratore, lo indebolite; non potete, dunque, vietare i servizi privati di informazione e orientamento, sia pure per proteggerlo contro un rischio marginale di sfruttamento: al contrario, occorre aumentare i servizi, perchè sia data maggiore informazione e quindi maggiore possibilità di scelta; così pure, non potete vietare il lavoro notturno alle donne: lasciate che sia la donna a decidere se è pericoloso, non consideratela minorenne; se voi, considerandola minorenne, le vietate di accedere al lavoro notturno, le fate complessivamente più un danno che un beneficio”. Perché un danno? Perchè in realtà ci sono situazioni nelle quali la donna maggiorenne ritiene che il lavoro notturno non sia pericoloso o che comunque i benefici di quel lavoro prevalgono sui possibili rischi: lasciatelo valutare a lei, non è una minorenne; se pretendete di difenderla contro se stessa, finite col perpetuare la sua condizione di inferiorità, col mantenerla in una condizione di debolezza.
Questo modo di affrontare il problema che ci veniva imposto dalla Corte di Giustizia era diametralmente opposto, in contrapposizione insanabile con l’idea del vecchio diritto del lavoro per cui, invece, il lavoratore è intrinsecamente debole nel mercato del lavoro, quindi la sua libertà negoziale non esiste: è “la foglia di fico che copre la vergogna della dittatura del padrone sull’operaio”.
Il dissenso era un dissenso epocale, non sanabile. Quelle sentenze sul lavoro notturno e sui servizi di collocamento privato proponevano un discorso che procedeva su un binario diverso rispetto a quello su cui si muoveva la cultura tradizionale del nostro diritto del lavoro: erano due binari paralleli, che non si sarebbero mai potuti incontrare. Perché è chiaro che se l’idea è che il mercato è pericoloso per il lavoratore, quindi bisogna tenere il lavoratore il più possibile fuori dal mercato, allora è giusto il monopolio statale pubblico del collocamento, è giusto bandire i “pericolosi” servizi di collocamento privati, e così via; se l’idea è che la donna non è in grado di scegliere nel mercato del lavoro, allora è giusto vietare il lavoro notturno per evitare che essa vi sia costretta. Ma se si incomincia a riconoscere che il lavoratore può effettivamente trarre vantaggio dalla possibilità di scelta nel mercato, allora ogni servizio di informazione in più nel mercato può tornargli utile, può essere un fattore di sua maggiore forza; e un ragionamento analogo può valere per il lavoro notturno delle donne.
Bene, a me sembra che la storia si stia muovendo nella direzione verso cui si muove la Corte di Giustizia, verso cui si muove l’ordinamento comunitario. Nessuno oggi, neanche l’estrema sinistra politica o quella sindacale, pensa di proporre il ritorno al divieto dei servizi privati di collocamento: abbiamo tutti assimilato l’idea che, invece, se questi servizi si svolgono alla luce del sole, se quindi si può controllare che non si tratti dell’attività di mercanti di braccia, garantito questo ogni servizio in più, ogni informazione in più di cui il lavoratore dispone lo rafforza; quindi è un bene. Allo stesso modo, credo che sentiremo mugugnare sempre di meno contro l’abolizione del divieto del lavoro notturno per le donne: nel 2008, dopo un decennio nel quale quel divieto non si è più applicato, quasi tutti riconosciamo che le donne non ne hanno subito alcun apprezzabile danno; e quasi tutti considereremmo il ripristino di quel divieto come un passo indietro, come una forma di paternalismo inaccettabile nei confronti del lavoro femminile. La storia ci ha abituati, ci siamo assuefatti, siamo entrati nel nuovo ordine di idee, abbiamo constatato che, tutto sommato, aveva ragione la Corte di Giustizia: non sono aumentati gli stupri notturni nei reparti; e comunque il modo giusto per contrastare gli stupri non consiste nel vietare il lavoro notturno alle donne.
Ora, anche quest’ultima sentenza sull’età di pensionamento va collocata in questo ordine di idee, tenendo conto di questa linea di tendenza; se il nostro ordinamento e la nostra cultura continueranno a collocarsi nella vecchia logica paternalista, a muoversi su di un binario parallelo, i due discorsi non si incontreranno mai.
Qui dissento da Valeria Fedeli. In genere essendo da sempre innamorato di lei, mi trovo d’accordo con quello che dice. Ma questa volta non concordo con la sua lettura minimizzatrice di questa sentenza. La sentenza si riferisce al settore pubblico è vero; ma svolge il suo discorso sulla discriminazione nel modo in cui lo svolge proprio in quanto assimila il settore pubblico a quello privato, lo assoggetta all’ordinamento generale; la sentenza si colloca dunque nella stessa logica in cui si sarebbe collocata se la disparità di trattamento incriminata fosse stata denunciata nel settore privato. Nella logica della Corte di Giustizia, quel tanto di paternalismo che è insito nel vecchio approccio al problema salta, si rivela incompatibile con i principi generali, sia che esso si applichi nel settore pubblico, sia che si applichi nel settore privato. Dobbiamo rassegnarci a che esso salti; ci conviene far buon viso a cattivo gioco – ammesso che il gioco sia davvero cattivo – spostando tutte le risorse che abbiamo destinato alla modalità paternalistica di protezione su altre iniziative, finalizzate all’obiettivo di Lisbona.
Ecco perché diventa importante il discorso sulla detassazione: nella logica in cui si colloca questa sentenza, quel discorso ci starebbe benissimo. L’intero risparmio che ci si può attendere da una graduale parificazione dell’età pensionabile delle donne rispetto a quella degli uomini, e anche risorse ulteriori, dovrebbero essere subito investite in una robusta detassazione del lavoro femminile.
Noi – intendo il Partito democratico ‑ stiamo lavorando adesso sulla detassazione dei primi mille euro di reddito di lavoro mensile. Le cifre sono queste: la detassazione totale dei primi mille euro di reddito per tutti i lavoratori, costerebbe 17 miliardi; se noi applichiamo delle compensazioni per cui chi guadagna oltre una soglia media, per esempio oltre i 40 mila euro annui, non abbia vantaggio da questa detassazione e quindi aumentiamo l’aliquota sui redditi maggiori in modo che il risultato fiscale per la fascia media sia all’incirca in pareggio, il costo può ridursi a 10 mila o anche a 8-9000 euro. È questa una misura che avrebbe delle ragioni fortissime sul piano della politica anticiclica: perchè è una misura che va direttamente a potenziare i consumi e non ha effetti distorsivi sul tessuto delle imprese: lascia che sia il mercato a dirigere tutte queste risorse che vengono immesse nel sistema verso la soddisfazione dei bisogni reali della gente. È la gente che sceglie come spendere questi soldi e non lo Stato a salvare i vecchi dinosauri. È dunque una misura molto più difendibile sul piano dei principi generali rispetto ai salvataggi di questa o quella grande impresa; e potrebbe essere la grande occasione per sperimentare anche la detassazione selettiva. Per esempio, mantenendo il costo fra gli 8 e i 10 miliardi, si può pensare di lasciare 400 o 500 euro annui di Irpef per il lavoratore maschio con un reddito di 13 mila, azzerando invece l’irpef per la lavoratrice donna con reddito uguale
Oggi è più facile far passare un’operazione di questo genere, proprio perché siamo in un momento di crisi: l’Unione Europea ci sollecita ad adottare misure anticicliche, allargando i cordoni della borsa; e per di più i tassi di interesse sul debito dello Stato si abbassano, producendo risparmi che si misurano in molti miliardi. In questo momento, dunque, disponiamo di risorse di cui non disponevamo un anno fa e probabilmente non disporremo fra due o tre anni, quando l’economia si sarà riassestata.
Per questo credo che sia il momento di batterci a fondo su questo tema, di dedicare una quantità di energie intellettuali e di impegno politico maggiore di quanto non stiamo facendo. E ripeto che, se ci crediamo, non dobbiamo lasciarci intimidire dall’obiezione giuridica; l’obiezione giuridica è superabile. Non è discriminazione a vantaggio delle donne: io la definirei piuttosto come la spallata necessaria per raggiungere l’obiettivo di Lisbona, destinata poi, raggiunto il tasso di occupazione femminile che ci siamo previssi, a un graduale riassorbimento.
[Seguono altri interventi. Omissis]
PIETRO ICHINO. Non ho niente da ribattere; anzi, prendevo spunto proprio dall’intervento di Donatella Poretti per precisare meglio quel che entrambi proponiamo. Esistono delle differenze di trattamento che costituiscono parte integrante di un equilibrio complessivo discriminatorio; per esempio, tutto quello che è protezione paternalistica rientra evidentemente nell’equilibrio deteriore. Ci sono invece misure differenziate che sono necessarie per uscire da quell’equilibrio e spostarsi su di un altro. La distinzione fondamentalmente è questa.
Ora, come sempre, spostarsi da un equilibrio deteriore a un equilibrio più virtuoso, è cosa difficile e che può avvenire per uno choc, in modo traumatico, oppure per lenti movimenti geologici, ma può anche non avvenire affatto. Comunque noi abbiamo bisogno che i tempi di questo spostamento non siano geologici.
Se ci poniamo in questa ottica, la detassazione selettiva è l’unica misura drastica, l’unica “spallata” che consenta di compiere questa operazione in tempi relativamente brevi. Si tratta, sì, di una misura produttiva di un disparate impact tra i due generi; ma poiché essa è mirata a uscire dal vecchio equilibrio e non a confermarlo o a compensarne gli aspetti deteriori, a mio avviso essa è sicuramente legittima dal punto di vista comunitario.
Io ho girato molto l’Italia negli ultimi mesi per discutere di queste cose: se faccio il censimento delle obiezioni che ho raccolto, quella della illegittimità sul piano comunitario rimane l’unica di un certo spessore. Se questa cade, veramente non c’è una obiezione seria a questa misura, che dal punto di vista macro-economico appare la più semplice ed efficace. Il giorno in cui una “forzatura” di questo genere portasse qualche milione di donne in più nelle nostre forze di lavoro, a quel punto sarà l’intero sistema a esigere la produzione dei servizi necessari per consentire a tante donne di lavorare; e sarà proprio il maggior volume di reddito prodotto a fornire il finanziamento necessario. Il lavoro oggi svolto in modo meno produttivo come lavoro domestico diventerà lavoro professionale nel settore dei servizi, svolto in modo molto più produttivo. Insomma si sarà messo in atto un grande gioco a somma positiva, nel quale tutti avranno da guadagnare, anche i maschi.
Più ci ragiono e ne discuto, come si è fatto in questi ultimi mesi, più mi convinco che sia una misura utilissima, non soltanto sul piano della promozione del lavoro femminile, ma anche e soprattutto sul piano generale, per rimettere in moto il nostro sistema economico, per uscire da una situazione nella quale siamo da quindici anni, con un tasso di crescita che da vent’anni è permanentemente la metà rispetto a quello medio europeo.
C’è bisogno di una “spallata”; e non vedo in quale altro modo potremmo darla. D’altra parte, non è una misura al di fuori della nostra portata. Tremonti parla di manovre da ottanta miliardi: qui ne basterebbero dieci volte meno. E sarebbe n’operazione di notevole impatto anche sul piano anticiclico, del contrasto alla recessione.
[Omissis]
PIETRO ICHINO. Oggi la no-tax area, cioè la fascia di reddito in cui non si paga Irpef è pari a ottomila euro annui. Se noi consideriamo la fascia dei mille euro al mese per tredici mensilità, qui abbiamo un reddito di 13 mila euro l’anno; la differenza rispetto alla no-tax area è di 5000 euro, sui quali grava un’aliquota del 23 per cento. Il 23 per cento di cinquemila sono 1250 euro annui: questa è l’Irpef che oggi paga un lavoratore con un reddito di mille euro al mese. Poiché quella dei mille euro al mese è giustamente considerata quasi una soglia di povertà, la prima idea che ha mosso il nostro gruppo di lavoro è questa: puntare alla riduzione dell’Irpef per questi redditi di lavoro a un’entità poco più che simbolica.
La seconda idea è questa: poiché probabilmente ai dieci miliardi di costo di questa operazione si può arrivare, ai diciassette no, riduciamo a zero l’Irpef sul lavoro femminile a mille euro al mese, lasciandolo a 400 o 500 euro all’anno per i maschi, che significa toglierne due terzi. Quindi il lavoratore maschio con 13 mila euro l’anno di reddito ne paga 400 o 500, cioè circa 30 o 40 al mese; la lavoratrice non ne paga.
Se poi si introducono alcune compensazioni negli scaglioni di reddito superiori, per fare in modo che questi non abbiano una riduzione rispetto alla situazione attuale, il costo complessivo dell’operazione può essere contenuto in 7000 o 8000 miliardi.