QUATTRO DIVERSE BUONE RAGIONI PER CUI UNA RIFORMA ELETTORALE E’ INDISPENSABILE, E PER CUI E’ AUSPICABILE L’ADOZIONE DELL’UNINOMINALE A TURNO UNICO (EVENTUALMENTE CON “VOTO ALTERNATIVO”, CIOE’ CON POSSIBILITA’ PER L’ELETTORE DI INDICARE LA SECONDA SCELTA)
Contributo dI Mario Patrono, ordinario di Diritto pubblico presso l’Università di Roma “La Sapienza”, in preparazione del seminario su “L’uninominale possibile” che si è svolto a Roma, a Palazzo Giustiniani, il 29 settembre 2010
Una riforma elettorale è indispensabile per quattro diverse buone ragioni.
La prima. La legge 21 dicembre 2005 n. 270, che disciplina il procedimento elettorale per la Camera e per il Senato, stabilisce non una vera “elezione”, ma una “votazione”. Un’elezione consiste nel fatto che il cittadino/elettore, attraverso il voto, possa scegliere il candidato da eleggere (e tale sembra essere il senso dei ricorsi alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione irritualmente avanzati nel 2008 e dalla Corte stessa respinti attraverso due ordinanze di inammissibilità: la n. 284/2008 e la 367/2008). L’elezione è una scelta degli eletti da parte degli elettori. La legge n. 270 del 2005, non consentendo agli elettori di scegliere gli eletti, è una votazione. Una votazione che non sia anche elezione è compatibile con i sistemi totalitari, mentre non lo è con le democrazie.
La seconda si riferisce al premio di maggioranza pari al 55% dei seggi, previsto dalla legge elettorale in vigore. Nel dare la maggioranza nell’Assemblea ad un partito (o a una coalizione di partiti) che, avendo conseguito la sola maggioranza relativa, è in minoranza nel Paese, la legge 270 contrasta con il principio fondamentale della democrazia secondo cui la maggioranza in Parlamento deve corrispondere alla maggioranza nel Paese.
Terza. La legge n. 270, riconoscendo un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi, va ad intaccare il quorum di garanzia delle minoranze che la Costituzione repubblicana stabilisce agli articoli 64 (approvazione dei regolamenti parlamentari), 83 u.c. (elezione del Presidente della Repubblica da parte delle Camere riunite, dopo la terza votazione infruttuosa), e 138 (approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, salvo richiesta di referendum approvativo).
Quarta. La legge n. 270 è disfunzionale rispetto al raggiungimento del suo stesso obiettivo dichiarato, quello cioè di stabilizzare il governo. Dato che il premio di maggioranza “funziona” a livello nazionale per la Camera dei deputati e a livello regionale per il Senato della Repubblica, ne risulta la possibilità di maggioranze diverse presenti nel Senato e nella Camera e conseguente instabilità governativa.
Nella prospettiva di una riforma elettorale, sono favorevole all’uninominale “secca” (a turno unico; vince il candidato che raggiunge il maggior numero di voti, anche se non ha la maggioranza assoluta).
In primo luogo, considero quella relativa all’uninominale “secca” una proposta accettabile dalla generalità dei partiti. Va notato al riguardo che il sistema dei partiti esistente oggi in Italia si compone di due livelli. Uno è quello dei partiti che occupano ufficialmente la scena parlamentare (Pdl, Pd e così via). Un altro, sotterraneo e però pervasivo, è costituito da quelli che amo chiamare “i partiti di diritto divino”, cioè i partiti “storici”: il partito dei cattolici, il partito socialista, i liberali e così via. L’uninominale “secca”, non richiedendo alcuna operazione di malapportionment rispetto alle tradizionali circoscrizioni elettorali (che sarebbe possibile riscrivere al loro interno senza snaturarle), avrebbe carattere “neutro” sia rispetto al primo che al secondo livello di sistema partitico. D’altra parte, anche i “partiti di diritto divino” non avrebbero ragione (nella misura in cui dovessero riemergere, in una forma o nell’altra) ad insistere per un ritorno al proporzionale. In realtà questo sistema elettorale si giustificava all’interno di una logica di forte temperatura della politica, quando si trattava di favorire la socializzazione in Parlamento di forze politiche fortemente connotate dal punto di vista ideologico, e favorisce la propensione dei partiti a enfatizzare la loro identità ideologica. Tutte cose che appartengono ad una politica ancien régime.
Nel merito, l’introduzione di una formula di maggioranza relativa a un solo turno in collegio uninominale, o, se si preferisce, di un sistema di voto alternativo in collegi uninominali e a maggioranza assoluta, produrrebbe una serie di conseguenze positive in ordine alla forma, alla vita interna e alla politica dei partiti.
Anzitutto, questo sistema – dato il numero elevato di circoscrizioni elettorali, pari al numero dei seggi (630) presenti nella Camera dei deputati, e date quindi le piccole dimensioni di ciascuna circoscrizione – afferma un rapporto di vicinanza tra eletto ed elettori e pertanto favorisce sia il collegamento tra “rappresentante” e “rappresentati” e cioè la rappresentanza dei concreti bisogni e interessi dei cittadini nel loro territorio, sia il recupero della sfera pubblica, fornendo ai cittadini lo stimolo per una maggiore partecipazione politica.
Da qui possono derivare, si diceva, una serie di conseguenze positive. E’ probabile, in primo luogo, che possa determinarsi – più o meno rapidamente – una configurazione “a rete” dei partiti, dove i livelli locali dispongono di forte autonomia rispetto al livello nazionale. La politica dei partiti, in secondo luogo, deriverebbe da una continua mediazione del livello nazionale con i livelli locali, secondo la dinamica delle onde di riflusso, e non sarebbe più, come invece è stata sempre in Italia, una politica eminentemente centralista: decisa cioè nelsancta sanctorum delle segreterie nazionali dei partiti, e da lì fatta discendere verso i territori. Si verrebbe a creare, in terzo luogo, uno stretto rapporto fra gruppi parlamentari ed elettori, dovuto al maggiore social control sul ceto politico e alla conseguente, più diretta responsabilità degli eletti nei confronti dell’elettorato.
Non è chiaro invece fino a che punto l’uninominale “secca” condurrebbe in Italia verso una situazione bipartitica. La tesi che questa specifica legge elettorale avrebbe prodotto un effetto bipartitico fu sostenuta convintamente, negli anni ’50 del secolo scorso, dal politologo Giuseppe Maranini, in presenza dei caratteri che presentava allora il sistema politico italiano. Oggi questo stesso effetto sembra assai più dubbio che possa determinarsi. Una riflessione al riguardo si riassume in poche parole. Dove esiste un sistema di partiti già semplificato all’interno di un quadro politico ormai ben consolidato in tal senso (prima condizione), là è vero che la legge elettorale uninominale a un turno può contribuire a “formattare” il sistema secondo una logica bipartitica, basata sulla possibilità di una compiuta alternanza: dato che, inevitabilmente, uscirebbe dalle urne il rafforzamento di uno o di un altro partito, all’interno di un quadro in cui, pur essendovi più partiti, due fossero comunque i partiti competitivi più forti (seconda condizione).
Diversamente, in una situazione frammentata in cui vi sono (o possono facilmente formarsi) partiti di forte consistenza a livello locale, i quali abbiano nel loro territorio un seguito maggiore di quello che hanno i partiti nazionali, può accadere – anzi è probabile che accada – un certo sparpagliamento dei partiti, e nasca la conseguente necessità che a livello parlamentare debbano formarsi delle coalizioni. Quindi non è affatto così scontato – in presenza appunto di un sistema maggioritario uninominale a un turno – che uno dei partiti arriverebbe a conseguire il controllo dominante della Camera.
Si porrebbe a questo punto il problema di come correggere una eventuale situazione di difficoltà con riguardo alla formazione e alla stabilità di un governo. Così come si porrebbe l’altro problema di non gettare nel cestino dei rifiuti quello che è stato, in termini di democrazia, il passo in avanti compiuto dopo il 1993 e cioè il fatto che le coalizioni si formano prima delle elezioni, non dopo.
Qui emerge la necessità, anche da questo punto di vista, della elezione popolare del capo dello Stato quale vertice del potere esecutivo: il quale viene così a funzionare, da un lato, da contrappeso istituzionale strutturalmente unitario, e, dall’altro, da elemento di aggregazione del quadro politico. Più esattamente, il motivo principale che mi spinge a sostenere l’elezione popolare del Capo dello Stato è l’esigenza di fare del Presidente un fattore di stabilizzazione politica, con il rafforzamento del suo ruolo di garante e di arbitro, non solo rispetto alla patologia del conflitto tra i partiti, ma in generale nei confronti di qualunque esorbitanza dei partiti stessi nella vita politica e istituzionale e cioè come correttivo della cosiddetta “partitocrazia”.