E’ LA GLOBALIZZAZIONE, NON LA FIAT, A IMPORCI DI CORREGGERE I DIFETTI DEL NOSTRO SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI – SE VOGLIAMO PORCI IN CONDIZIONE DI RIFIUTARE IL SUO PIANO, DOBBIAMO APRIRCI MOLTO DI PIU’ AGLI INVESTIMENTI STRANIERI, IL CHE IMPLICA ANCORA DI PIU’ CHE CORREGGIAMO QUEI DIFETTI – ALTRIMENTI, LA SOLA ALTERNATIVA ALL’ACCORDO DI POMIGLIANO RESTERA’ IL LAVORO NERO CONTROLLATO DALLA CAMORRA
Versione integrale dell’intervista a cura di Alessandro Calvi, pubblicata su il Riformista del 16 settembre 2010 con alcuni tagli dovuti ai limiti di spazio
Professor Ichino, lei sostiene che Marchionne ci fa un favore. Cosa intende dire?
Il favore consiste in questo: che Marchionne ci dice quali sono i difetti del nostro sistema delle relazioni industriali, che ostacolano l’attuazione del suo piano industriale. Le altre multinazionali che stanno alla larga dal nostro Paese non perdono tempo a dircelo.
Ma quel favore lo fa anche ai lavoratori o lo fa soprattutto alla azienda che guida?
Certo che lui agisce nell’interesse della Fiat: è il suo amministratore delegato. Ma l’Italia è, almeno da due decenni, il fanalino di coda in Europa per capacità di attirare gli investimenti stranieri: peggio di noi fa soltanto la Grecia. Ed è anche interesse nostro, di tutti i lavoratori italiani, fare una diagnosi del male oscuro che causa questa nostra pessima performance.
Dunque qual è la diagnosi giusta, secondo lei?
Finora ci siamo crogiolati nell’idea che sia colpa soltanto dei difetti delle nostre amministrazioni pubbliche, delle nostre infrastrutture, dei costi troppo alti dei servizi alle imprese. Ora Marchionne ci avverte che una delle cause, e non ultima per importanza, è anche l’inconcludenza del nostro sistema delle relazioni industriali: il fatto che non si possa avviare un piano industriale innovativo senza il consenso di tutti i sindacati; il potere di veto che il sistema di fatto dà ai sindacati minoritari.
In che cosa consiste questo potere di veto?
Innanzitutto nel fatto che se il piano industriale richiede una deroga rispetto al modello di organizzazione del lavoro, di struttura della retribuzione, di distribuzione dei tempi di lavoro, stabilito dal contratto nazionale, questa deroga è valida ed efficace nei confronti di tutti i lavoratori solo se l’accordo aziendale è sottoscritto da tutti i sindacati. Poi c’è il problema della clausola di tregua.
Qual è il problema?
Una delle parti essenziali dell’accordo di Pomigliano è quella che riguarda il 18mo turno, che è reso possibile da un’ora e mezza media settimanale di lavoro straordinario, aggiuntiva rispetto all’orario normale di 38 ore e mezzo. Ora, i Cobas hanno proclamato lo sciopero dello straordinario da qui fino al 2014. E fino a oggi in Italia – unico Paese in Europa, se si eccettua la Francia – si è ritenuto che qualsiasi lavoratore può aderire a qualsiasi sciopero proclamato da qualsiasi sindacato, anche in presenza di una valida clausola di tregua. Così, nonostante il patto di tregua contenuto nell’accordo, la clausola contrattuale relativa al 18mo turno diventa inesigibile: ogni lavoratore potrà sottrarsi alla sua applicazione, semplicemente aderendo allo sciopero proclamato dal Cobas.
Secondo Fausto Bertinotti oggi il capitalismo è totalizzante: la vecchia borghesia considerava spazi di dialogo e conflitto, il “marchionnismo”, invece, affermerebbe la dittatura del mercato. “Non discutono – dice Bertinotti – si nascondono dietro affermazioni del tipo: Queste misure sono inevitabili. Si fa così e basta”.
Quando siano rispettate le leggi dello Stato, negoziare le condizioni di lavoro è compito del sindacato, non dei politici. L’accordo di Pomigliano non viola nessuna legge; ed è stato firmato da una coalizione sindacale che in quello stabilimento è maggioritaria, e che sa il fatto suo. Certo che su quell’accordo hanno influito in modo determinante le condizioni imposte dal contesto planetario. Ma chi decide su che cosa è accettabile e che cosa no, in un piano industriale, Bertinotti o il sindacato cui i lavoratori in maggioranza hanno dato il mandato di trattare?
Bertinotti mette anche in guardia la sinistra e anzi, parlando dell’aggressione del modello concentrazionista al mondo del lavoro, dice che, se la sinistra si “marchionnizza” e accetta questo modello in nome della modernizzazione, è spacciata. È un rischio che vede anche lei?
La sinistra, finora, ha accettato tranquillamente qualche cosa di molto peggio: il lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori campani descritto da Roberto Saviano, nei sottoscala controllati dalla Camorra, a 700 euro al mese senza contributi, per dieci ore al giorno, senza alcun diritto. Questa è la “deroga allo standard nazionale” che si pratica normalmente da decenni in quella regione, altro che le deroghe chieste da Marchionne. E sono tutte aziende che potrebbero essere chiuse dall’oggi al domani, solo incrociando i tabulati dell’Inps con quelli dei consumi elettrici. Se fin qui non lo si è fatto è per paura della disoccupazione che ne sarebbe derivata.
Se non vuoi il lavoro nero devi rassegnarti a Marchionne. Questa sembra però una dimostrazione pratica del pericolo di una dittatura del mercato.
Se la politica vuole dare una mano agli operai colpiti dalla concorrenza internazionale, deve farlo in tutt’altro modo che interferendo nelle scelte contrattuali del sindacato.
In che modo?
Innanzitutto detassando i redditi di lavoro fino a 1000 euro mensili, che si possono considerare come una soglia di povertà. I 110 euro che oggi vengono prelevati su di una busta paga di 1000 sono una vera e grave ingiustizia.
Ma sostenere il bivio tra la Camorra e Marchionne senza dare altre possibilità, non rischia di essere un altro modo per surriscaldare gli animi di chi non intende imboccare né la prima né la seconda strada?
C’è solo una terza strada realisticamente percorribile: fare in modo che l’Italia si apra agli investimenti stranieri, i quali portano domanda di lavoro, quindi maggiore forza e possibilità di scelta per i lavoratori nel mercato del lavoro; e portano innovazione, quindi aumento della produttività e miglioramento delle condizioni di lavoro. Per questo, insieme ad altre cose, occorrono regole migliori per le relazioni industriali, che consentano di evitare che il contrasto tra sindacati, quando è insanabile, sia causa di paralisi. E occorre anche un diritto del lavoro più semplice e traducibile in inglese: quello attuale è illeggibile anche per gli esperti italiani.
In ogni caso, lei ha detto di essere più preoccupato dalla inerzia di governo e parlamento che dall’aumento della conflittualità sindacale.
Lo confermo. Quanto alla semplificazione del diritto del lavoro, come ha notato anche il Capo dello Stato in riferimento al “Collegato lavoro”, ci stiamo muovendo all’indietro. Quanto alla paralisi del sistema di relazioni sindacali, è evidente che l’accordo interconfederale dello scorso anno è del tutto insufficiente.
Quanto in questa situazione, per così dire, fluida pesano le divisioni nel sindacato?
In un regime come il nostro di pluralismo sindacale le divisioni tra sindacati non dovrebbero essere considerate una patologia. Lo diventano quando mancano, come da noi mancano, le regole necessarie per decidere chi, entro quali limiti e a quali condizioni ha il potere di contrattare con efficacia per tutti i lavoratori interessati. Meglio se lo stabilisce un accordo interconfederale firmato da tutti. Ma se questo non arriva, deve intervenire la legge, sia pure in via sussidiaria e provvisoria.