A CHE COSA SERVE IL SINDACATO, NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

CI SONO INNOVAZIONI BUONE E CATTIVE, MA NON POSSIAMO PRECLUDERCI QUELLE BUONE PER PAURA DELLE CATTIVE: ABBIAMO BISOGNO DI UN SINDACATO CHE ABBIA L’INVESTITURA NECESSARIA DEI LAVORATORI INTERESSATI E CHE, AZIENDA PER AZIENDA, SAPPIA VALUTARE E DISTINGUERE TRA LE UNE E LE ALTRE

Intervista a cura di Pierluigi Mele, pubblicata da RaiNews24.it l’11 settembre 2010 – A che cosa serve il sindacato? è anche il titolo del libro che, su questi stessi temi, ho pubblicato nel 2005

Professor Ichino, quali conseguenze produrrà la decisione di Federmeccanica di recedere dal contratto nazionale quadriennale del 2008?
Sul piano pratico, questo atto di Federmeccanica non produce alcun effetto immediato: al di là delle disquisizioni giuridiche, i rapporti di lavoro nel settore metalmeccanico restano comunque regolati dal contratto triennale stipulato nel 2009, anche se su questo manca la firma della Cgil. È evidente, però, che questo atto di Federmeccanica segna ufficialmente l’apertura della crisi del nostro sistema di relazioni industriali centrato su di un contratto nazionale rigidamente inderogabile.

In questo modo non si rischia una “balcanizzazione”, come dice la Cgil, delle relazioni industriali?
Parlerei piuttosto di differenziazione delle discipline applicabili: questo sì. Ma, quando gli standard fissati dalle direttive europee e dalla legge nazionale siano rispettati, la possibilità di una maggiore differenziazione, contrattata da chi rappresenti la maggioranza dei lavoratori interessati, costituisce un fatto positivo.

Perché?
Perché solo in questo modo ci si apre all’innovazione nell’organizzazione del lavoro, nella struttura della retribuzione, nella distribuzione dei tempi di lavoro. Certo, non tutte le innovazioni sono buone. Ma non possiamo precluderci le innovazioni buone per paura di quelle cattive. E a giudicare può essere soltanto, caso per caso, la coalizione sindacale più rappresentativa.

Vede un nuovo “autunno caldo” alle porte?
Non mi preoccupa tanto un aumento della conflittualità sindacale, quanto l’inerzia del Governo.

Nonostante i proclami della politica “del fare”, oggi è il tempo della “politica debole”. Altri attori, esempio Marchionne, si “fanno”, a volte in modo spregiudicato, e si “danno” le risposte alla globalizzazione. La politica invece sembra assente.
Spesso la politica si occupa di quello di cui non dovrebbe, invadendo il campo di competenza esclusiva delle relazioni sindacali. E non fa invece quello che deve, nei campi di competenza propria.

Quali campi?
Innanzitutto quello fiscale: è urgente dare sostegno alla parte più debole dei lavoratori, quelli che guadagnano mille euro al mese e che soffrono sempre di più la concorrenza dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo: occorre ridurre drasticamente l’Irpef sulle loro buste paga. Che su quei mille euro lo Stato se ne prenda 110 di imposta, come accade oggi, è davvero scandaloso.

La politica non deve occuparsi delle relazioni industriali?
Oggi mi sembra che debba occuparsi anche di queste: se il sistema delle relazioni industriali non è in grado di darsi da solo le regole indispensabili, deve essere il legislatore a farlo, sia pure soltanto in via sussidiaria e provvisoria. Su questo terreno, invece, il Governo è totalmente assente.

Quale dovrebbe essere secondo lei il nuovo assetto della contrattazione collettiva?
Il disegno di legge n. 1872, che ho presentato nel novembre scorso con altri 54 senatori dell’opposizione, attribuisce al contratto collettivo la funzione di dettare lo standard applicabile dovunque manchi un contratto più vicino al luogo di lavoro, stipulato dalla coalizione sindacale che rappresenti la maggioranza dei lavoratori interessati.

In questo modo il contratto nazionale conserverebbe la sua funzione di “copertura” dell’intero settore?
Sì, ma come disciplina di default: dove ce ne sono i presupposti, si lascia al sindacato in azienda la possibilità di valutare i piani industriali innovativi e, se la valutazione è positiva, la possibilità di guidare e assistere i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore.

Stiamo assistendo a una stagione non brillante del movimento sindacale italiano: divisioni strategiche, una competizione che a volte sfocia in sterili personalismi, insomma  un sindacato che fa fatica a essere protagonista del cambiamento sociale. Quali sono, per lei, i punti di forza, se vi sono, e i punti di debolezza da superare per tornare ad essere attore fondamentale del processo sociale?
La rissosità del confronto dipende in larga parte dall’assenza di regole chiare su chi sia abilitato a contrattare scostandosi dagli standard o dai modelli contrattati in precedenza. Il nostro progetto mira invece a consentire che visioni e prassi sindacali diverse possano confrontarsi e competere tra di loro, in un quadro di regole di democrazia sindacale, che consenta di stabilire con chiarezza chi ha titolo per contrattare con efficacia per tutti.

Dunque è tramontato, secondo lei, il sogno di un’unità sindacale?
La nostra Costituzione garantisce il pluralismo sindacale. Questo significa che non dobbiamo considerare come un’anomalia il fatto che nel movimento sindacale ci siano dei dissensi, delle fratture anche insanabili. Quello che è grave è che non ci siano le regole necessarie per dirimere il contrasto. Di queste c’è urgente bisogno: la vicenda Fiat-Federmeccanica lo mostra con evidenza. E, ripeto, se sindacati e imprenditori non sono in grado di darsele da soli, spetta al legislatore colmare provvisoriamente la lacuna.

 

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