I SALARI PUBBLICI? AD PERSONAM

LA MANOVRA TREMONTI HA RIDOTTO I SALARI PUBBLICI IN MODO INDIFFERENZIATO – OCCORRE INVECE RIDURRE I SALARI DI ALCUNI E AUMENTARE QUELLI DI ALTRI, IN BASE A UNA RIGOROSA  MISURAZIONE INDIPENDENTE, DIFFERENZIADOLI ANCHE IN BASE ALLE DIFFERENZE REGIONALI DI COSTO DELLA VITA

Articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato su Il Sdel ole-24 Ore del 6 giugno 2010. Segue una replica del ministro della Funzione pubblica Brunetta, sullo stesso quotidiano il 15 giugno, e la contro-replica dei due autori, del giorno successivo.

Se l’Italia non ricomincia a crescere, il rapporto debito/Pil non scenderà mai e il paese non uscirà da quello stato d’insicurezza fiscale che lo attanaglia ormai da tempo. Il settore pubblico è quello in cui è più evidente la difficoltà di conciliare gli obiettivi di contenimento della spesa e di stimolo alla crescita.
I costi e l’inefficienza della pubblica amministrazione pesano sulla produttività del paese, ma al tempo stesso erogare maggiori risorse a chi le spende male sarebbe controproducente e comunque aggraverebbe il problema del debito, data l’impossibilità d’incrementare le tasse. E se anche si riuscisse, come certamente si deve, a recuperare evasione fiscale, queste entrate dovrebbero servire solo a ridurre le aliquote per chi le tasse le paga già.
Come si può, allora aumentare l’efficienza del settore pubblico senza spendere maggiori risorse? L’unica soluzione percorribile è difficile, ma non ha alternative: si deve contenere la spesa aggregata differenziando al suo interno l’erogazione di salari e risorse che premino i migliori a svantaggio dei peggiori. La manovra Tremonti ha bloccato la crescita dei salari pubblici (oltre che le assunzioni) che da tempo salivano più rapidamente di quelli privati, e per la prima volta ha fatto entrare nel lessico politico italiano il concetto di “riduzione” dei salari statali, sia pur di poco e per pochi. Questa è una novità su cui far leva. Ma ora bisogna usarla e proseguire sulla strada delle differenziazioni a parità di spesa totale. Sono almeno due le dimensioni su cui agire: produttività e costo della vita.
Sul primo punto, il termine “meritocrazia” è ormai sbandierato da tanti, ma pochi hanno il coraggio di dire che questo implica aumentare i salari di qualcuno e ridurre quelli di altri, visto che la somma totale non deve salire. Per fare questo sono necessari sistemi di valutazione, ma al tempo stesso sarebbe pericoloso collegare meccanicamente le retribuzioni ai pochi indicatori misurabili di performance. Questi criteri, apparentemente oggettivi, sono manipolabili e possono incentivare comportamenti diversi da quelli veramente desiderati se questi ultimi non sono facilmente misurabili. Servirebbe una maggiore autonomia e discrezionalità dei singoli enti pubblici nella gestione delle loro politiche retributive, fatta salva la valutazione ex post dei risultati.
Nelle scuole americane e inglesi, ad esempio, gli insegnanti migliori hanno stipendi più alti non per un rigido meccanismo che leghi automaticamente le loro retribuzioni a indicatori misurabili ma parziali del loro valore. È il mondo esterno ad indicare chi sono gli insegnanti migliori, ossia quelli più contesi tra le varie scuole: le maestre piu brave ricevono tante offerte e il loro datore di lavoro deve tenerne conto se non vuole perdere le migliori. Gli uffici pubblici in Italia hanno bisogno di questa medesima autonomia, combinata con una seria valutazione dei risultati.
Sulla differenziazione in base al costo della vita, si è scritto molto (noi stessi su queste pagine e recentemente Angelo Panebianco sul Corriere della Sera). Ci sono zone del paese (non necessariamente solo al Sud) in cui i prezzi dei beni di consumo sono almeno del 20% inferiori che in altre. Considerando il prezzo delle case, le differenze sarebbero forse ancora maggiori. Quindi il potere d’acquisto reale di lavoratori con retribuzioni nominali uguali può differire notevolmente nelle diverse aree del paese. In un mercato del lavoro libero queste differenze reali si aggiusterebbero per tenere conto di quanto diversamente attraenti sono le condizioni di vita e di lavoro nei diversi luoghi. Ma se i salari nominali non possono aggiustarsi e sono dovunque uguali a parità d’inquadramento, come nel settore pubblico italiano, il salario reale di chi vive in zone a basso costo della vita potrebbe essere ingiustificatamente troppo alto.
Non solo è iniquo che, a parità di altre condizioni, il potere d’acquisto di lavoratori identici debba essere diverso, ma così facendo si danno anche incentivi sbagliati che riducono le potenzialità di crescita del paese. Dove il costo della vita è basso si sta in coda per il posto pubblico, che fa concorrenza “sleale” agli imprenditori privati. E in generale gli uffici pubblici tendono ad essere sottodimensionati da una parte e sovradimensionati altrove.

 

LA REPLICA DEL MINISTRO BRUNETTA: PREMIARE IL MERITO? GIA’ FATTO
Avere il sostegno di due importanti economisti in un’azione difficile come quella di fare della pubblica amministrazione un fattore di competitività e crescita dell’economia attraverso l’aumento della produttività dei pubblici dipendenti mi avrebbe fatto piacere. È stata questa la mia prima reazione alla lettura dell’articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato sul Sole 24 Ore del 6 giugno. Ma so anche che appoggiare da ricercatori un’azione di riforma richiede un minimo di impegno e di coraggio civile. L’impegno riguarda la fatica di essere informati. Il coraggio è quello di sapere schierarsi, che significa esprimere giudizi chiari sugli avvenimenti.
Nel loro articolo Alesina e Ichino ribadiscono ciò che è noto a tutti: il consolidamento fiscale, necessario a uscire dai pericoli della crisi debitoria che colpisce i paesi avanzati e in particolare l’Europa, e l’Italia al suo interno, richiede che si agisca sia sul deficit, sia sulla crescita. Essi colgono anche come l’azione sul settore pubblico sia strategica non solo per contenere il deficit, per controllare e ridurre la spesa pubblica, ma per generare un aumento della produttività dell’intero sistema economico.
Come si ottiene questo risultato? Evidentemente attraverso un aumento della produttività dei dipendenti pubblici, un quinto dell’occupazione dipendente complessiva, e aumentando la qualità dei servizi che determinano la produttività del settore privato. Da quando sono diventato ministro non faccio che ripetere questi concetti. Ma un ministro deve tradurre le idee in azione di governo. È compito del ministro e del governo nel suo complesso, non degli opinion maker il cui compito è tenere vigile l’opinione pubblica e, se si tratta anche di studiosi, suggerire gli strumenti o criticare quelli adottati.
E qui si viene al motivo della mia reazione all’articolo. Essenzialmente i due autori affermano che l’unico modo di incentivare la produttività è introdurre il premio al merito nella pubblica amministrazione e per far questo è necessario differenziare i salari. Inoltre poiché la massa salariale del settore pubblico in questa fase di consolidamento fiscale non può crescere, questo obiettivo si può raggiungere solo riducendo i salari di chi non merita e aumentando quelli di chi merita.
Aggiungerei che questo principio, cioè quello che i salari possono essere anche ridotti a chi non merita, è valido sempre non solo in tempi di vincoli di bilancio. D’altra parte i salari devono essere legati alla produttività, nel settore pubblico come in quello privato, e questo implica che essi possano essere anche ridotti laddove la produttività decresce. Il vero problema non è infatti comparare la dinamica dei salari, ma compararli in rapporto alla dinamica della produttività. Il problema è che la produttività nel settore privato è misurata, seppur indirettamente, dal mercato. Nel settore pubblico non c’è la selezione del mercato e deve intervenire un  sistema di valutazione severo.

Mi sto accorgendo che sto illustrando la riforma della pubblica amministrazione da me voluta e che è divenuta legge nell’autunno 2009. In particolare sto spiegando le ragioni per le quali in questa legge si preveda l’istituzione di un sistema di valutazione e di una commissione indipendente che assicuri la correttezza del sistema e perché, proprio per rompere un tabù, la differenziazione salariale debba essere applicata per legge con un criterio secondo il quale il 25% dei dipendenti, quelli che hanno avuto la valutazione più bassa, perdano i premi di produttività, e quindi vedano il loro salario ridotto. Si è trattato di rompere il tabù di cui parlano i due articolisti anche se il metodo può essere criticato e affinato. Non è stato facile e abbiamo avuto coraggio. Ora si tratta di applicare la legge ed è necessario altrettanto coraggio.
Mi avrebbe fatto piacere annoverare anche Alesina e Ichino tra coloro che aiutano ad attuare, a migliorare o anche a cambiare la riforma se ritengano che contenga degli errori. Purtroppo c’è un “ma”, o meglio due. Il primo: essi ignorano l’esistenza di questa legge (decreto legislativo 150/2009) anche se conoscono il sistema scolastico inglese. Ma posso aumentare le loro informazioni con tanti altri esempi internazionali perché quando si vara una legge si studia prima di formularla, e forse bisogna farlo anche prima di scrivere articoli. Il secondo “ma” riguarda il coraggio, quello di riconoscere, o almeno valutare, quello altrui.

 

LA CONTROREPLICA DI ALBERTO ALESINA E ANDREA ICHINO: LA “RIFORMA BRUNETTA” PER ORA C’E’ SOLTANTO SULLA CARTA, BOICOTTATA DALLO STESSO GOVERNO DI CUI BRUNETTA FA PARTE
           
Il Ministro Brunetta ci accusa di non aver riconosciuto i suoi meriti. È vero: lui è una delle  voci di questo governo, con il Ministro Gelmini, che a parole hanno proposto una differenziazione delle retribuzioni nel settore pubblico. Ma lui stesso ci ricorda che compito di un ministro è “tradurre le idee in azioni di governo”: ossia fatti non parole.
            Sul tema della tanto sbandierata meritocrazia abbiamo sentito molte parole ma visto pochi fatti. Gli spiragli positivi aperti dal D.L 150/2009 (che ben conosciamo!), sono stati chiusi dalla manovra: per tre anni almeno, le retribuzioni sono bloccate per tutti, buoni e cattivi.
            Il Ministro Gelmini aveva preso l’impegno di restituire agli insegnanti in forma premiale il 30% dei risparmi conseguiti, ma non si sa ancora se l’impegno sarà mantenuto nonostante sia stato trovato il modo per farlo.
            Nell’università ci sono professori che non fanno ricerca e non insegnano, a fianco di precari più meritevoli. Ma il governo non ha il coraggio di prendere provvedimenti e potrebbe benissimo farlo senza alcuna nuova legge.  L’unica cosa che ha saputo fare, è stato tagliare nella scuola tutti i precari indiscriminatamente, sia quelli bravi sia quelli incapaci, salvando invece gli insiders con il posto fisso, senza eccezioni e senza meritocrazia.
            Stiamo ancora aspettando una riforma che dia autonomia agli atenei nell’offerta formativa e nella gestione delle risorse umane (licenziamenti, retribuzioni e avanzamenti di carriera), a cui faccia seguito un’erogazione differenziata dei fondi sulla base della qualità (e magari la chiusura  degli atenei che non meritano). Di nuovo, molti annunci mediatici ma pochi risultati concreti.
            Il ministro cita come cosa fatta l’autorità indipendente (Civit) istituita un anno fa  per  garantire e coordinare la valutazione delle amministrazioni pubbliche.  La realtà è che il governo non ha ancora emanato i decreti necessari per il suo funzionamento. Né ha risposto ad un’interpellanza urgente presentata in proposito al Senato da oltre un mese.
            Infine, ed era un punto importante del nostro articolo, nulla è stato fatto per tenere conto delle differenze di costo della vita nel paese. Ministro Brunetta, siamo pronti a riconoscerle i suoi meriti, e avremmo dovuto scriverlo.  Ma vorremmo vedere piu fatti e meno parole dal governo in tema di meritocrazia nell’amministrazione pubblica.

 

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