LO STATUTO E’ STATO SCRITTO IN UN EPOCA IN CUI NELLE AZIENDE NON C’ERANO ANCORA I FAX, LE FOTOCOPIATRICI, I COMPUTER, I TELEFONI CELLULARI, INTERNET, E IL TEMPO DI VITA DELLE TECNICHE APPLICATE SI MISURAVA IN DECENNI (OGGI LO SI MISURA IN MESI): C’E’ MATERIA – ALTROCHE’ – PER UNA RISCRITTURA DI QUESTA LEGGE FONDAMENTALE, E SE QUESTO AVVENISSE SULLA BASE DI UN ACCORDO TRA TUTTE LE PARTI INTERESSATE SAREBBE MOLTO MEGLIO
“Lettera sul Lavoro” pubblicata sul Corriere della Sera del 31 maggio 2010
Caro Direttore, il ministro del Lavoro Sacconi ha colto l’occasione delle celebrazioni del quarantennale dello Statuto dei lavoratori per annunciare che intende riscrivere questa legge. La Cgil ha risposto con il classico “lo Statuto non si tocca”. La Cisl ha risposto in un altro modo: “lo Statuto va aggiornato, ma è compito della contrattazione collettiva tra imprenditori e sindacati indicare al legislatore il modo giusto per farlo”. Per comprendere meglio ciascuna di queste tre posizioni occorre fare un passo indietro di quarant’anni.
L’emanazione dello Statuto, nel 1970, coincise con una svolta decisamente sfavorevole alla corrente di pensiero che va sotto il nome di “contrattualismo sindacale”, cui si ispirava soprattutto la Cisl, tendenzialmente contraria all’ingerenza del legislatore nella materia propria della contrattazione collettiva. Anche i maggiori alfieri di quella corrente di pensiero, come Gino Giugni e Federico Mancini, nella seconda metà degli anni ’60 fecero propria la linea dell’intervento legislativo forte voluta da Pietro Nenni e dal ministro Giacomo Brodolini. Che cosa era accaduto di così importante da determinare questo cambiamento di rotta anche all’interno e nei dintorni della Cisl?
Una spiegazione possibile è questa: negli anni ’60, gli anni dei primi Governi di centro-sinistra, i partiti maggiori avevano progressivamente posto in essere una sorta di lottizzazione delle competenze legislative, per la quale economia, finanza e industria erano assoggettate al controllo sostanziale della DC, mentre il lavoro era assoggettato al controllo del PSI e del PCI (a quest’ultimo veniva attribuito quanto meno un potere di veto in proposito). In questo quadro, si può capire che anche una parte consistente della Cisl abbia ceduto alla tentazione di accettare una forte intrusione del potere legislativo nella materia del lavoro, sul presupposto che la legge potesse consolidare e ampliare le conquiste ottenute sul piano contrattuale e il potere di veto della sinistra costituisse comunque una buona garanzia contro possibili “ritorni indietro”. Col passaggio alla seconda Repubblica e al sistema bipolare della politica nazionale, quell’assetto consociativo è saltato; ma sul terreno delle politiche del lavoro la sinistra sembra tardare a rendersene conto: la sua veemente opposizione “a prescindere” contro la legge Biagi del 2003 (la quale ha infranto assai meno tabù di quanto avesse fatto in precedenza la legge Treu del 1997) è essenzialmente animata dalla convinzione che alla sinistra stessa competa ancora il vecchio diritto di veto. Ora, la parola d’ordine che viene opposta al ministro Sacconi – “lo Statuto non si tocca” – sembra esprimere la stessa convinzione. Ma ovviamente il centrodestra non riconosce alcun potere di veto all’opposizione.
Così stando le cose, la trincea sindacale più forte sembra, in realtà, quella su cui si è schierata la Cisl (e con essa la Uil), cioè quella della difesa dell’autonomia del sistema di relazioni industriali. Trincea che sarebbe, ovviamente, ancora più forte se a presidiarla si aggiungesse la Cgil; senonché ciò comporterebbe da parte di quest’ultima il riconoscimento che c’è qualche cosa da negoziare per l’aggiornamento dello Statuto del 1970. A sostegno del rifiuto di impegnarsi su questo terreno la Cgil porta invece l’argomento della china scivolosa: “si sa dove si comincia ma non dove si va a finire”. Chi ha fatto affidamento per quarant’anni sul potere di veto della sinistra non può che avere grosse preoccupazioni ad aprire un negoziato su questa materia senza rete di sicurezza.
C’è poi il problema che il sistema di relazioni industriali funziona bene soltanto se a credere nella sua superiorità rispetto alla legislazione statuale ci sono anche gli imprenditori. Ma oggi la netta prevalenza in Parlamento di orientamenti pro-business può indurre le associazioni imprenditoriali a coltivare sotto sotto l’idea che un’altra stagione di interventismo legislativo slegato dalla contrattazione collettiva in materia di lavoro, dopo quella del 2001-2006, male non faccia.
Forse l’unica labile chance di rilancio di un sistema italiano di relazioni industriali veramente autonomo, al riparo dalle alterne incursioni della politica, sta nella rinuncia da parte delle associazioni imprenditoriali a una nuova stagione di interventismo legislativo, in cambio della disponibilità della Cgil a entrare nel merito del nuovo diritto del lavoro necessario per l’Italia del dopo-crisi e per le nuove generazioni. Lo Statuto è stato scritto in un’epoca in cui nelle aziende non c’erano ancora i fax, le fotocopiatrici, i computer, i telefoni cellulari, Internet; nelle aziende non erano entrati ancora né i test psico-reattivi, né le indagini motivazionali; e il tempo di vita di una tecnica applicata si misurava in decenni (oggi lo si misura in mesi). C’è materia – altroché – per una riscrittura di questa legge fondamentale. E se questo avvenisse sulla base di un accordo tra tutte le parti interessate sarebbe molto meglio. Ma non sembra probabile.