UNA RIFORMA PROFONDA DEL DIRITTO E DEL MERCATO DEL LAVORO

NONOSTANTE L’APPARENTE PARALISI POLITICA IN CUI IL PAESE SEMBRA ESSERE CADUTO, IL DIBATTITO SULLA RIFORMA DEL SISTEMA DI PROTEZIONE DEL LAVORO INCOMINCIA A PRODURRE DEI RISULTATI RILEVANTI – IL PROGETTO SEMPLIFICAZIONE E FLEXSECURITY SEGNA UNA SVOLTA SU QUESTO TERRENO

Intervista a cura di Giovanni Francesco Cassano, pubblicata sul n. 3/2010 de L’informatore Inaz 

Eppur si muove; così potremmo descrivere il processo che il movimento riformista, in materia di diritto e rapporti di lavoro e diritti sindacali sta effettuando.
Il tempo delle riflessioni profonde sul proprio ruolo sembra aver lasciato il campo all’azione e alle proposte, così come i protagonisti urlanti della televisione hanno lasciato il palcoscenico a persone più avvezze al fare che al dire, all’essere che all’apparire.
Ecco che dallo scontro urlato si torna alla proposta comunicata, spiegata e confrontata. All’elaborazione scritta di un pensiero che va oltre il significato intrinseco dell’ inchiostro e che va nella direzione di un ritorno alla semplificazione di rapporti per troppo tempo regolati da una pletora di norme che, spesso, oltre a rendere pesante il sistema, si sono dimostrate lesive degli interessi stessi delle persone a favore delle quali erano state emanate.
Si ritorna alla divulgazione alle masse non solo tramite i comizi televisivi, ma tra la gente, in convegni ed incontri.  In aule consiliari o comunali, in palestre e in ogni posto ove possano entrare persone interessate e pronte a fare domande.  Il segreto del successo dei provvedimenti sta proprio nella possibilità che le persone comuni hanno di fare domande e di cercare di capire il significato e gli effetti che, tali norme, potrebbero avere nella propria vita. Questo è quello che da anni fa il sindacato nelle fabbriche, ma questo è quello che dovrebbe fare la politica nelle piazze, spiegare e lasciarsi fare le domande.
Per questo diciamo eppur si muove, perché è proprio il movimento il protagonista dell’azione di uno di questi riformatori; il lungo percorso che lo porta ogni giorno da uno studio televisivo all’aula del Senato e da questa ad una sala consiliare di un qualsiasi centro urbano del nostro lungo paese.
Il professor Pietro Ichino, con grande senso di disponibilità assoluta verso la causa riformista, da tempo ha elaborato, in collaborazione con illustri studiosi della materia, dei progetti legislativi che potrebbero avere un impatto importante nella vita di tutti i giorni dei lavoratori e dei cittadini. Le sue proposte sono partite dall’osservazione dei mercati del lavoro dei Paesi simili, come struttura sociale, al nostro, per concentrare l’attenzione su quelle società che vivono realtà lavorative e sociali decisamente diverse ma maggiormente protette. Tali osservazioni, associate ad una lunga esperienza lo hanno portato ad elaborare delle alternative sia in tema d’organizzazione delle regole del mercato del lavoro sia in ordine alla riforma complessiva del diritto del lavoro; alternative generatrici dei provvedimenti legislativi all’esame del Parlamento.
Oltre ad averli presentati al Senato, come detto, il professor Ichino si è reso protagonista di una serie d’interventi in ogni possibile sede, comprese quelle più piccole, a contatto sia con i tecnici della materia sia con la gente comune, per cercare di presentare le proprie idee e per creare il confronto, raccogliendo domande e suggerimenti.
Poniamo al professor Ichino alcune domande per rendere l’idea della forza e della passione delle idee riformiste da lui formulate.

Per incominciare, qual è, a suo modo di vedere l’attuale situazione del mercato del lavoro in Italia?
E’ una situazione caratterizzata da un fortissimo dualismo. In nessun altro mercato del lavoro europeo – tranne forse quello spagnolo – si assiste a un vero e proprio regime di apartheid tra protetti da un lato e poco o per nulla protetti dall’altro. Abbiamo toccato con mano questa situazione proprio in questo anno di crisi: i cinquecentomila che hanno perso il lavoro nel corso del 2009 sono quasi tutti appartenenti alla “serie B” o “serie C”: lavoratori a termine, “a progetto”, false “partite Iva” e simili.

Qualcuno, però, ha sostenuto che questa struttura del nostro mercato del lavoro, con la flessibilità che è data dalla metà della forza-lavoro meno protetta, è la più adatta per rispondere alla sfida lanciata dalla crisi mondiale dei mercati?
No: oltre che iniqua, è anche una struttura inefficiente. Perché nella parte protetta genera troppa rigidità delle strutture produttive. Nella parte non protetta impedisce l’investimento nel capitale umano: né l’impresa né la singola persona che lavora sono disposte a investire in formazione professionale su di un rapporto di lavoro volatile, di serie B o addirittura di serie C.

Le sue proposte di legge giacenti in Parlamento propongono alternative davvero in grado di superare questi difetti?
Questo è almeno il mio intendimento; ma non sono l’unico a pensarlo. Il progetto complessivo si fonda su anni di studi e confronti con le migliori esperienze straniere. Il disegno di legge n. 1481, del marzo 2009, mira ad avviare un processo di sperimentazione che consenta il formarsi progressivo della “cultura della flexsecurity”, che in Italia ancora manca. I disegni di legge n. 1872 e 1873 disegnano invece organicamente quello che potrebbe essere il nuovo diritto del lavoro per il dopo-crisi, per le nuove generazioni di lavoratori. Un diritto del lavoro capace di essere davvero universale, applicabile a tutti, quindi caratterizzato innanzitutto da una grande semplicità e leggibilità. Basti dire che l’intero ordinamento dei rapporti individuali e collettivi, oggi sparpagliato in centinaia di leggi diverse, viene condensato in 71 articoli.

Il precariato in Italia sembra essere diventato una emergenza, i cui primi effetti perversi per la qualità della vita delle persone coinvolte si sono già palesati alle prime difficoltà imposte dalla crisi: impossibilità ad accedere al credito agevolato, difficoltà a pianificare la propria esistenza. La sua proposta fornisce risposte a queste nuove esigenze, numericamente rilevanti?
Sì. L’idea è questa: tutti i nuovi rapporti di lavoro caratterizzati da una situazione di “dipendenza economica” del prestatore – tranne i casi classici di lavoro a termine – devono costituirsi a tempo indeterminato; nessuno, però, sarà inamovibile: il controllo giudiziale sarà limitato alle discriminazioni, mentre il “filtro” del motivo aziendale di licenziamento sarà costituito esclusivamente dal costo che l’impresa si accolla per garantire la sicurezza del lavoratore nella transizione al nuovo lavoro. Tutti i nuovi assunti, quindi, godranno di questa sicurezza; ma allo stesso tempo le aziende godranno di una possibilità di aggiustamento industriale enormemente superiore rispetto a quella di cui hanno goduto finora.

Più concretamente, come si coniuga la flessibilità in uscita, richiesta dalle aziende che devono affrontare situazioni di mercato nuove, con il necessario sostegno al lavoratore posto in esubero?
L’idea è questa: l’impresa è giuridicamente libera di licenziare per motivi economici od organizzativi, purché si accolli il costo di un trattamento complementare di disoccupazione che porti il sostegno del reddito del lavoratore licenziato al 90% per il primo anno dopo il licenziamento. Se entro il primo anno non si trova la nuova occupazione, il trattamento è dell’80% per il secondo anno, poi del 70% per il terzo. Questo trattamento economico, ispirato all’esperienza danese, è accompagnato dall’affidamento del lavoratore a un’agenzia scelta dall’impresa stessa – possibilmente d’accordo con il sindacato – che curerà le iniziative necessarie per il rapido ricollocamento e controllerà la disponibilità effettiva del lavoratore.

Questo dispositivo non è troppo costoso per le imprese?
No. Innanzitutto, esso costa certo meno di quanto costa il regime attuale, che impedisce o ritarda molto l’aggiustamento industriale. Ma, soprattutto, va considerato che il trattamento complementare di disoccupazione costerà poco all’impresa nel corso del primo anno (perché coprirà soltanto la differenza fra il 90% e il trattamento di disoccupazione ordinario o speciale erogato dall’Inps: rispettivamente al 60% e all’80%). E già oggi, secondo i dati Istat, più dell’ottanta per cento dei lavoratori che perdono il lavoro lo ritrovano entro il primo anno. Ma questa percentuale è destinata ad aumentare, quando i servizi per la ricollocazione saranno gestiti dall’agenzia incaricata dall’impresa interessata.

Che cosa garantisce che i servizi di assistenza al lavoratore nel mercato saranno migliori?
L’interesse economico: se la ricollocazione non avverrà entro il primo semestre o il primo anno, nel secondo e nel terzo anno dal licenziamento il costo del trattamento per l’impresa aumenterà notevolmente. Si attiva in questo modo l’incentivo giusto per la scelta dei servizi migliori di outplacement, per la valorizzazione del know-how necessario, che in Italia oggi c’è ma non è valorizzato come si dovrebbe.

Si può affermare che si tratta del passaggio da un sistema di pura assistenza economica ad uno d’accompagnamento attivo per il ricollocamento e riqualificazione del lavoratore al fine di ridurre al minimo i tempi di non lavoro ed i correlati costi sociali?
Proprio così. Il punto è esattamente questo.

Il concetto di dipendenza economica può essere esteso anche alla platea delle “partite Iva” simulate?
Questo concetto è stato elaborato sul terreno giuslavoristico – sulla base dell’approccio interdisciplinare di Labour Law and Economics ‑ proprio in funzione del contrasto alla simulazione del lavoro autonomo. L’idea è che nel mercato del lavoro moderno, post-industriale, il bisogno di protezione non nasce dal rapporto di subordinazione, ma da quella particolare distorsione dei meccanismi normali di mercato che va sotto il nome di “monopsonio dinamico” e che nel campo del lavoro è per lo più determinata dal lavorare in modo continuativo ed esclusivo per un unico committente. Questa è dunque la nuova fattispecie di riferimento che proponiamo per il nuovo diritto del lavoro: quella del lavoratore che trae continuativamente più di due terzi del proprio reddito da un unico rapporto.

Il concetto del firing cost sembra legare in modo indissolubile la convenienza economica che un’azienda potrebbe avere nel sopprimere un posto di lavoro rispetto alla prosecuzione in perdita dello stesso. Ma nell’esperienza comune, spesso, si verifica che le aziende, pur attraversando periodi di grave difficoltà, non adottino misure espulsive immediate, aggravando a priori la propria situazione economica e finanziaria, magari indebitandosi con enti terzi. Ci chiediamo come tale concetto, ineccepibile dal punto di vista aziendalistico, possa essere applicato nei casi, spesso individuali, di lavoratori per i quali l’azienda già si addossa un costo, testimoniato dal Conto Economico, prima di arrivare alla “soluzione finale”.
Adottare il firing cost come unico filtro del “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento, significa innanzitutto limitare il compito del giudice all’individuazione e rimozione delle discriminazioni vietate. Questo è necessario perché il giudice, di fatto, non è mai veramente in grado di sostituirsi all’imprenditore nella prognosi circa la perdita attesa derivante dalla prosecuzione di un rapporto di lavoro. D’altra parte, il controllo giudiziale sul “giustificato motivo oggettivo” viene sostituito dalla internalizzazione del costo sociale del licenziamento: se dalla scelta imprenditoriale deriverà un periodo di disoccupazione più lungo del normale, questo graverà sul bilancio aziendale. La scommessa è che questa sostituzione del filtro del firing cost al filtro giudiziale configuri un gioco a somma positiva: ci guadagnano i lavoratori in sicurezza, ci guadagnano le imprese perché il regime di flexsecurity costa complessivamente meno del regime attuale di ingessatura dei posti di lavoro regolari, ci guadagna l’intero sistema economico perché la maggiore fluidità del mercato del lavoro consente una migliore allocazione delle risorse umane e una migliore valorizzazione – quindi anche retribuzione media – della forza-lavoro.

Nella stratificazione del tessuto produttivo italiano è possibile applicare una norma comune ad ogni impresa, con riferimento agli attuali limiti dimensionali? Non esiste il rischio di aggravare le imprese più piccole che, comunque, per struttura devono già gestire rapporti personali più intensi?
Nel disegno di legge n. 1873 (nuovo Codice del lavoro), il regime di flexsecurity di cui abbiamo parlato fin qui si applica soltanto alle imprese alle quali oggi si applica il vecchio regime stabilito dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (articolo 2120): non sarebbe, infatti, politicamente proponibile imporre il nuovo regime alle imprese che si collocano sotto la soglia dei 16 dipendenti, oggi esentate dall’applicazione dell’articolo 18. Il disegno di legge n. 1481, che prevede soltanto la sperimentazione volontaria del regime di flexsecurity da parte delle imprese interessate, prevede anche che per le imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti il costo medio del nuovo regime venga coperto dall’Erario mediante uno sgravio contributivo per i nuovi rapporti di lavoro. Questo sgravio è determinato nella misura dello 0,5% delle retribuzioni lorde, sulla base dell’ipotesi prudenziale di un tempo medio di ricollocazione dei lavoratori fra i tre e i sei mesi e di un turn over del 5% annuo. Lo stesso meccanismo di compensazione potrebbe essere generalizzato, nei confronti dei tutte le imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti, nel caso in cui si decidesse di applicare il nuovo regime in modo generale, senza eccezioni. In questo caso l’esborso a carico dell’erario ammonterebbe all’incirca a 500 milioni annui: un costo più che proporzionato rispetto all’obiettivo storico che in questo modo si raggiungerebbe, cioè quello del superamento del dualismo tra imprese piccole e imprese medio-grandi (dualismo che oggi incentiva fortemente il “nanismo” del sistema produttivo italiano).

Il necessario coinvolgimento delle strutture pubbliche nella realizzazione del progetto, considerato il loro stato di ritardo cronico e di difficoltà a recepire le innovazioni, non rischia di essere un azzardo con conseguente potenziale fallimento delle politiche di sostegno?
Il progetto prevede che sia l’impresa a scegliere – dove possibile d’accordo con il sindacato – l’agenzia cui verrà affidato il lavoratore licenziato; e che sia quest’ultima a individuare liberamente i servizi di assistenza intensiva nella ricerca del nuovo lavoro, di orientamento e riqualificazione mirata. Se l’agenzia si rivolgerà a operatori privati come Manpower, Adecco, o DBM, invece che alle strutture pubbliche, questo costituirà un’indicazione precisa della qualità dei servizi offerti dagli uni e dalle altre.

Lei propone anche, in connessione con la riforma della materia dei licenziamenti, una riforma incisiva del sistema della Cassa integrazione. Come si coniugano i due interventi?
Oggi, di fatto, la Cassa integrazione è largamente utilizzata anche in situazioni nelle quali non vi è alcuna prospettiva di ripresa del lavoro; si può dire quindi che è utilizzata per mascherare dei sostanziali licenziamenti. Senonché questo è gravemente dannoso, oltre che costoso, perché così si “addormenta” il problema occupazionale; ed è ampiamente dimostrato che questo è un problema la cui soluzione è sempre più difficile, via via che si allunga il periodo di sostanziale disoccupazione. La riforma che propongo tende a incentivare imprenditori e lavoratori ad affrontare subito il problema nel modo giusto, evitando l’abuso della Cassa integrazione dove non c’è prospettiva di ripresa del lavoro.

Come?
Per un verso, stabilendo che quanto erogato dalla Cassa dovrà essere restituito se al termine del periodo di sospensione il lavoro non riprenderà per almeno due mesi. Per altro verso, offrendo ai lavoratori un sostegno del reddito più elevato, a titolo di indennità di disoccupazione, quando di disoccupazione effettivamente si tratta e non di sospensione temporanea del lavoro: 90% dell’ultima retribuzione con tetto massimo di 3.600 euro, a fronte dell’80% con tetto di 1000 euro corrisposto dalla Cassa integrazione.

Un altro problema, in materia di Cassa integrazione, è che le sue procedure ne scoraggiano l’utilizzazione da parte delle imprese di minori dimensioni.
È così. E per di più, nell’ultimo quarto di secolo la gestione della Cassa integrazione ha restituito a imprese e lavoratori soltanto un quarto del gettito dei contributi, che è pari mediamente al 3% del monte salari: così quei contributi si configurano di fatto per tre quarti come una tassa sul lavoro, progressiva in ragione inversa delle dimensioni delle imprese del settore industriale. La riforma proposta nell’articolo 2116 del nuovo Codice del lavoro (d.d.l. n. 1873) elimina del tutto le procedure burocratiche, facilitando l’accesso alla Cassa da parte delle imprese minori; e al tempo stesso consente di ridurre il contributo medio intorno allo 0,5%, con abbattimento medio del 2,5% del costo del lavoro.

Come può realizzarsi il miracolo?
L’articolo 2116 prevede che, in caso di sospensione del lavoro in un ufficio o reparto, l’imprenditore sia sempre obbligato a pagare ai dipendenti i quattro quinti della retribuzione normale. La Cassa integrazione, a questo punto, funziona come assicurazione dell’imprenditore, non dei lavoratori; e interviene rimborsando all’imprenditore due terzi del trattamento, cioè il 60% della retribuzione normale. Il restante 20% resta a carico dell’impresa e funge da “filtro” della sua scelta di sospendere il lavoro: questo consente di eliminare drasticamente tutte le procedure di controllo della “causa integrabile”, che non hanno mai funzionato; e di eliminare i numerosi e ben noti abusi della Cassa. La riforma, poi, prevede che nel settore industriale l’assicurazione C.i.g. resti obbligatoria; negli altri settori essa sarà invece facoltativa e potrà essere attivata mediante un contratto collettivo di settore. In ogni caso l’Inps è tenuto a determinare il “premio” a carico delle imprese in misura non superiore rispetto alle necessità della copertura assicurativa in un orizzonte di medio termine. Se si considera l’andamento degli ultimi vent’anni, si può considerare sufficiente un contributo non superiore allo 0,5%.

Nei disegni di legge n. 1872 e 1873, oltre all’obiettivo della flexsecurity e della riforma degli ammortizzatori sociali, lei e altri 50 senatori vi proponete anche di ridisegnare i contenuti ed il perimetro dell’attuale diritto del lavoro. Quali sono i motivi che vi hanno spinti a questa riscrittura di un insieme di norme così corposo e complesso?
Oggi un codice del lavoro che raccolga tutte le leggi in questa materia richiede fra le duemila e le tremila pagine. Ed è di difficilissima lettura anche per gli esperti. La regolamentazione della materia ha raggiunto un grado di complessità intollerabile; e questo incide non soltanto sul costo del lavoro, ma anche sull’effettività del diritto. Due anni fa abbiamo costituito due gruppi di lavoro, che hanno fatto il censimento di tutte le norme oggi in vigore suddividendole per “capitoli”. Poi abbiamo provato a distillare l’essenza dell’ordinamento, capitolo per capitolo: ne è nato questo Codice, che all’inizio constava di 64 articoli; dopo sei mesi di discussioni e verifiche, che hanno comportato l’inserimento nel Codice anche della materia del lavoro domestico, il numero degli articoli è salito a 71. Quando verrà approvato, questi 71 articoli ne sostituiranno migliaia.

Il successo della introduzione dello Statuto dei lavoratori, nel 1970, è sicuramente da individuare nella sua semplicità di lettura e capillare divulgazione. Considerando il paragone impietoso tra quegli anni e gli attuali, in termini di potenza nella distribuzione delle informazioni e conoscenze (nuove tecnologie), e alla luce delle profonde modifiche nella società, ritiene possibile replicare quell’esperienza per cercare di creare maggiore consapevolezza nei lavoratori e negli imprenditori circa la necessità di essere affiancati da un sistema di protezione sociale attivo basato, in primis, sulla capacità della persona d’essere protagonista della propria storia lavorativa?
L’obiettivo è questo. Solo un diritto del lavoro che possa essere letto e capito da tutti, anche dall’imprenditore e dal lavoratore più sprovveduti, può permeare di sé la cultura del Paese, può essere un diritto del lavoro al tempo stesso universale ed efficace. Ma c’è un risvolto ulteriore, non di secondaria importanza: un diritto del lavoro semplice, chiaro, conciso e facilmente traducibile in inglese può costituire un ottimo biglietto da visita del nostro Paese nel mercato globale dei capitali. L’illeggibilità e intraducibilità del nostro ordinamento attuale costituisce una delle cause principali – ancorché certo non l’unica – della incapacità dell’Italia di attrarre investimenti stranieri.

Il sindacato è pronto a raccogliere tutte le sfide che il pensiero riformista sta elaborando, favorendo   la convergenza degli sforzi nella direzione unitaria per garantirne il successo, oppure resta diviso anche su temi così delicati e coinvolgenti?
La Cisl, per bocca del suo Segretario nazionale competente per le politiche del lavoro, Giorgio Santini, ha definito “affascinante” il progetto contenuto nel disegno di legge n. 1481. La Uil e l’Ugl gli hanno dedicato un seminario a livello nazionale e diversi altri incontri periferici. La Cgil è più abbottonata, ma è significativo che si sia astenuta dal pronunciarsi in senso contrario; e in Lombardia, Piemonte e Veneto ha manifestato concretamente un interesse in proposito. Del resto, anche la Cgil ha firmato, con Cisl Uil e altri sindacati, l’accordo per il settore bancario che introduce esplicitamente un modello di flexsecurity per la soluzione delle crisi occupazionali negli istituti di credito. Se il legislatore prendesse con decisione l’iniziativa su questo terreno, non sarebbe la Cgil a mettersi di traverso.

Il Paese sembra distratto, rispetto ai problemi del mondo del lavoro, salvo risvegliarsi solo in presenza di crisi e quindi di tassi di disoccupazione in crescita. È evidente che in realtà, nel nostro Paese, non sembra la disoccupazione, in se stessa, il vero problema, quanto la precarietà dei rapporti esistenti e il futuro, in termini d’aspettative di vita dei lavoratori non stabili. Quale ruolo crede giochino la stampa ed i media in generale nel trattare questi temi?
I media in generale e la stampa in particolare hanno un ruolo cruciale in questo campo. E non lo svolgono sempre nel modo migliore. Mancano i giornalisti specializzati, capaci di compiere una selezione autonoma dei temi da trattare; col risultato che media e stampa in particolare sono sempre a rimorchio degli annunci lanciati dal politico di turno. Così, scoppiano periodicamente delle piccole “tempeste in un bicchier d’acqua”, che durano lo spazio di pochi giorni e cessano senza lasciare traccia; salvo lasciare l’opinione pubblica disorientata e male informata. Per esempio, negli ultimi sei mesi abbiamo avuto le nostre piccole inconcludenti “tempeste nel bicchier d’acqua” per la battuta di Brunetta sul sistema italiano degli ammortizzatori sociali che sarebbe il “migliore del mondo”, per l’uscita di Bossi sulle “gabbie salariali”, o per quella di Tremonti al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione sulla partecipazione agli utili: per qualche giorno non si è parlato d’altro, poi si è voltato pagina senza che ne restasse nulla. Occorrerebbe invece una mobilitazione costante dell’opinione pubblica sui grandi problemi del nostro mercato del lavoro, che restano gravi anche se i big non ne parlano.

Quali sono i più gravi, a suo modo di vedere?
Il dualismo tra protetti e non protetti, di cui abbiamo parlato prima. Ma anche il tasso innaturalmente basso di occupazione delle donne, dei giovani e degli anziani; la patologica lentezza delle nostre strutture produttive nel reagire agli shock tecnologici ed economici; l’incapacità del nostro sistema di attirare gli investimenti stranieri; la tendenza della disoccupazione a configurarsi come stato di lunga durata. E l’elenco, purtroppo, potrebbe continuare.

Ringraziamo il professor Pietro Ichino per la sua disponibilità a rispondere alle nostre domande e ricordiamo che tutto il materiale riferito alle sue proposte è disponibile sul sito www.pietroichino.it
È evidente che i temi contenuti nei provvedimenti legislativi proposti potrebbero avere effetti importanti sulla vita delle imprese e dei lavoratori, con ricadute interessanti anche nell’ambito delle relazioni sindacali e in quelle sociali; in questo senso  attraverso una informazione capillare si potrebbero  potenziare  tali effetti aprendo  a tutti le porte della conoscenza del diritto del lavoro, oggi, riservata solo ai “tecnici”. Da questo punto di vista potrebbe innescarsi un processo virtuoso di modifica all’approccio ai concetti quali  “occasione di lavoro”, “posto fisso” e “ammortizzatori sociali”, permettendo di ridurre la distanza che ci separa da nazioni che, prima di noi, hanno applicato tali modelli.
Ecco che, allora, non si può che incoraggiare ed accogliere con favore una nuova “stagione di proposte”, la stagione del ritorno al pensiero riformista, che attraverso un lungo  percorso porti le idee dalle grandi aule  del Parlamento alle piazze, nelle case.

 

 

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