I MOTIVI PER CUI NON HO ADERITO ALLA MOZIONE FRANCESCHINI, CHE PURE, SECONDO LE PREMESSE AVREBBE DOVUTO COSTITUIRE LA MIA SCELTA NATURALE. E I MOTIVI DEL MIO VOTO PER LA TERZA MOZIONE
Editoriale in esclusiva per questo sito, del 27 settembre 2009
Ho già esposto in questo sito, nel dialogo con Michele Salvati sulle scelte congressuali, le due ragioni che mi hanno impedito di aderire alla mozione Franceschini.
In estrema sintesi, le riassumo così:
‑ i rapporti tenuti dal Pd in questi ultimi mesi, sotto la guida di Franceschini, verso socialisti e radicali non mi paiono coerenti con l’idea fondamentale del “partito a vocazione maggioritaria”, che dovrebbe aspirare ad accogliere e valorizzare al proprio interno tutte le forze politiche di centrosinistra, mostrandosi capace di conciliare e condurre a sintesi le loro posizioni; a socialisti e radicali Franceschini si è limitato a proporre una “solida alleanza programmatica”, che è cosa ben diversa dall’adoperarsi perché essi possano considerare il Pd come una grande “casa comune”;
– nella mozione Franceschini non ho trovato alcuna traccia dei due temi su cui mi sono maggiormente impegnato, insieme a tanti altri parlamentari e militanti del Pd, in questo primo anno e mezzo di legislatura, temi che pure occupavano un posto centrale nel manifesto elettorale con cui il Pd si è presentato agli elettori nel marzo 2008: la riforma del diritto del lavoro “nel segno della migliore flexsecurity europea” e la riforma delle amministrazioni pubbliche secondo i principi fondamentali della trasparenza totale, della valutazione indipendente e del benchmarking comparativo.
Quanto alla mozione Bersani, inizialmente me ne ha allontanato la sua apertura alla prospettiva di un possibile ritorno al sistema elettorale proporzionale, pur corretto alla tedesca, cui sono nettamente contrario. Devo riconoscere a Bersani e ad altri esponenti di spicco della sua mozione (tra i quali Massimo D’Alema ed Enrico Letta) alcune aperture esplicite alla prospettiva di una nuova politica del lavoro non conservatrice dell’esistente, e in particolare al progetto Flexsecurity. Ultimamente, però sul tema della riforma delle amministrazioni pubbliche dal quartier generale di Piazza SS. Apostoli è stato diffuso un documento che nega radicalmente valore alla battaglia condotta dal Partito in questo anno e mezzo di legislatura, soprattutto al Senato, con il disegno di legge n. 746 (di cui sono primo firmatario, ma che è stato firmato anche da tutta la presidenza del Gruppo e da alcune decine di parlamentari PD) e poi per il miglioramento del disegno di legge del ministro Brunetta. Non avrei mai potuto votare per una mozione che fa proprio quel documento: avrebbe voluto dire rinnegare gran parte di quel che ho sostenuto pubblicamente negli ultimi cinque anni e di quanto ho fatto in Parlamento dal maggio dell’anno scorso. Se, dopo il congresso, il PD cadesse nel gravissimo errore di fare sua una posizione come questa su di un tema di importanza così decisiva per il futuro del Paese, esso si presenterebbe agli elettori non come “espressione politica del movimento sindacale” (che già sarebbe una riedizione antistorica dell’esperienza laburista, contraria alle ragioni stesse per cui il PD è nato), ma come espressione politica della parte peggiore del movimento sindacale.
Ho trovato, viceversa, una piena coerenza con la “strategia del Lingotto”, e anche molte consonanze con le mie idee e proposte, sia sul versante della riforma del diritto del lavoro, sia su quello della riforma delle amministrazioni pubbliche, nella mozione Marino e nelle prese di posizione dei suoi principali sostenitori. Se nelle settimane scorse non le ho dato il mio appoggio militante è perché – forse sbagliando – ho avuto qualche riserva iniziale sulla capacità del suo portabandiera di proporsi come leader politico a tutto campo; ho avuto, inoltre, l’impressione che i suoi sostenitori pongano troppo selettivamente l’accento su alcuni altri temi, certo importanti, ma che non possono essere quelli decisivi per conquistare la maggioranza tra quaranta milioni di elettori.
Detto questo, comunque, al congresso una scelta va compiuta. E, tutto considerato, in una situazione che vede la contesa per la leadership di fatto ristretta a Franceschini e Bersani, non mi pare affatto male per il PD che il terzo contendente concluda la corsa con un risultato di rilievo: ciò condizionerà comunque positivamente il vincitore. Per questo, stamattina, al congresso del mio circolo, ho votato la mozione Marino. Per la segreteria regionale lombarda ho invece votato per Maurizio Martina, col quale già da molto prima di questa vicenda congressuale condivido idee, proposte e iniziative, non solo in materia di politica del lavoro; e continuo a condividerle.
P.S. Se ho proposto in questo documento alcune notazioni negative su posizioni che si esprimono nel PD, è solo per assolvere il dovere di spiegare ai lettori ed elettori i motivi delle mie scelte in questa campagna congressuale. Ci sono però anche alcuni dati molto positivi da sottolineare in questa vicenda congressuale. Innanzitutto il fatto che questo sia un congresso veramente aperto, il cui risultato finale non è stato fin dall’inizio (e non è neppure ora) affatto scontato. Inoltre il fatto che il Partito non si sia diviso per nulla secondo le provenienze politiche degli iscritti ante-2007. Poi il fatto che il dibattito congressuale abbia prodotto il risultato di una progressiva notevole convergenza fra le mozioni su numerose questioni di grande importanza, prime fra tutte la scelta per un sistema bipolare tendente all’alternanza di governo e la concezione laica del Partito. Infine il coinvolgimento reale nel dibattito interno al Partito di tanti non iscritti, che si preparano a esprimere la loro scelta nelle elezioni primarie del 25 ottobre.