IL TEMA CRUCIALE DEL DISEGNO DI LEGGE NON E’ COME DISTRIBUIRE GLI UTILI, MA COME PRODURLI, COME PRODURRE MAGGIORE RICCHEZZA. E POICHE’ LA SOLUZIONE STA NELL’INNOVAZIONE, QUESTO E’ IL VERO TEMA
Intervista a cura di Davide Colombo, pubblicata (con alcuni tagli per ragioni di spazio) sul Sole 24 Ore il 3 settembre 2009
Professore prima il ministro Tremonti e poi il suo collega Sacconi hanno dato la loro benedizione al disegno di legge in discussione al Senato sulle forme di partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Ma le reazione di Confindustria e della Cgil sono negative. Perché?
A ben vedere, le reazioni negative si sono appuntate su ipotesi estranee al disegno di legge, o molto marginali. Ieri Bombassei sul Sole ha detto un “no secco” all’ipotesi della cogestione; ma tra le nove ipotesi previste nel progetto la cogestione non compare proprio.
Bombassei, però, ha anche ammonito contro l’accelerazione dell’iter del disegno di legge.
Ha solo chiesto che sul testo si sviluppi un confronto con le parti sociali interessate. Ora, la Commissione Lavoro del Senato ha già sentito, su questo progetto, sia le associazioni imprenditoriali sia i sindacati; ben venga, comunque, un confronto ulteriore.
E la posizione della Cgil?
Epifani e Camusso hanno detto che non ha senso discutere di partecipazione agli utili in un momento di crisi come questo, nel quale gli utili non ci sono. Ma il tema cruciale del progetto non è come distribuire gli utili: è come produrli, come produrre la ricchezza da distribuire. E poiché la soluzione sta nell’innovazione, il tema è come aprire la strada alla scommessa comune di lavoratori e imprenditori sui nuovi piani industriali.
In Parlamento sul tema della partecipazione sono state presentate decine di proposte di legge, una la firmò anche Sacconi la scorsa legislatura. Ora si parla di approvazione in tempi brevi. Vuol dire che la crisi economica produce anche effetti positivi?
In realtà, al Senato abbiamo incominciato a lavorare su questo tema già nell’estate dell’anno scorso, quando la crisi non era ancora scoppiata. Certo, ora forse l’esigenza di accelerare i processi di innovazione può aiutare il disegno di legge a camminare più speditamente.
Il testo è molto breve: cinque articoli; eppure apre a un ventaglio di possibili modelli di partecipazione: agli utili e non solo. Il senatore Castro ha parlato di norma pedagogica per avvicinare imprese e lavoratori su piani di sviluppo da condividere nel dopo-crisi.
È vero: una parte delle cose indicate nel disegno di legge è fattibile anche oggi, a legislazione invariata; qui la legge ha poco più che un valore esortativo. Per alcune altre, invece, occorre introdurre una regola di democrazia sindacale che il nostro sistema di relazioni industriali non è ancora stato capace di darsi da solo. Qui il legislatore interviene qualificando esplicitamente il proprio intervento in chiave di sussidiarietà.
Per praticare la partecipazione si deve passare dal contratto aziendale ma sono possibili anche deroghe per consentire di legare una parte della retribuzione al conseguimento di determinati obiettivi. Sembra una chiamata alla responsabilità collettiva: imprenditori, lavoratori e sindacati alla gestione condivisa di piani industriali.
Questo è il vero nocciolo duro del disegno di legge. Proprio qui è indispensabile una regola di democrazia sindacale. E osservo che si tratta di una regola, quella della verifica di rappresentatività, che è sempre stata la Cgil a rivendicare.
In Italia la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è evocata già nella Costituzione (art. 46) e quella agli utili è prevista dal Codice civile. Eppure nella prassi è quasi assente, se si escludono le cooperative. Secondo lei perché? Quali altre esperienze internazionali a noi vicine sono interessanti su questo aspetto?
Secondo i dati riportati da Maurizio Ferrera sul Corriere, in Europa il 25% circa delle imprese oggi praticano forme di condivisione dei profitti, con punte superiori al 40% in Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda. In Italia siamo molto al di sotto di questi dati.
In aprile la Fiat ha dovuto trattare con il sindacato Uaw l’ingresso in Chrysler e ora se lo ritrova socio al 20%. Secondo lei in Italia quante Spa potrebbero essere interessate a misurarsi con esperienze di partecipazione simili?
In genere sono le imprese in crisi quelle che aprono più volentieri alla partecipazione azionaria dei propri dipendenti. Ma anche questa della partecipazione azionaria è solo una delle tante forme possibili. Il punto più importante non è la forma, ma la sostanza della scommessa comune tra imprenditori e lavoratori sull’innovazione.
Si parla anche di un possibile utilizzo del Tfr per la partecipazione al capitale. Non le sembra una deviazione rispetto al destino che era stato indicato per il salario differito, vale a dire la costruzione di un secondo pilastro previdenziale?
Anche i Fondi Pensione investono quegli accantonamenti nel mercato azionario. Perché non potrebbero farlo direttamente anche i lavoratori, dove ne avessero buone ragioni? Il disegno di legge consente questa possibilità in azienda, condizionandola ovviamente al consenso del singolo lavoratore interessato.