IL DISSESTO DEL BILANCIO DEL COMUNE DI ROMA: UN MILIARDO DI DEBITO OGNI ANNO – A DETERMINARLO CONCORRONO IN MODO DECISIVO 25.000 STIPENDI PAGATI DA IMPRESE PARTECIPATE INEFFICIENTI E IN GRAN PARTE DEL TUTTO INUTILI
Intervento di Linda Lanzillotta nella seduta antimeridiana del Senato del 20 febbraio 2014 – In argomento v. anche l’articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera del 6 gennaio: Roma, deficit a un miliardo. La città ha più dipendenti della Fiat.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione generale.
È iscritta a parlare la senatrice Lanzillotta. Ne ha facoltà.
LANZILLOTTA (SCpI). Signor Presidente, come molti colleghi ricorderanno, questo provvedimento è un po’ anomalo giacché era già stato da noi esaminato alla fine dello scorso anno, ma dopo essere stato appesantito impropriamente dalla Camera dei deputati di altri contenuti del tutto inadeguati, alla fine era stato ritirato dal Governo. Infatti, esso non sarebbe stato promulgato dal Presidente della Repubblica, essendo ormai degenerato nei suoi contenuti. È stata quindi eccezionalmente consentita, anche in difformità dai precedenti costituzionali e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, di cui è stata data una lettura possibilista in quanto il decreto-legge non era stato convertito ed il relativo disegno di legge di conversione era stato ritirato dal Governo, una reiterazione di alcune sue parti.
Tra queste c’è la parte cosiddetta salva Roma che affronta la situazione molto grave in cui versa la Capitale dal punto di vista delle finanze e della gestione amministrativa.
La situazione di Roma, moltiplicata almeno per dieci, rappresenta un po’ il punto esponenziale di una situazione di crisi che riguarda l’intero sistema dell’amministrazione municipale. Sulla crisi della finanza locale (che è strutturale e sulla quale penso bisognerà fare una riflessione in quanto questa potrà essere superata solo con un ripensamento dell’assetto organizzativo degli enti locali), sulla situazione di crisi della città di Roma si innestano gli effetti di una mala gestio che ha caratterizzato il Comune negli ultimi anni e che ha riguardato soprattutto il sistema delle cosiddette municipalizzate, che sono la fonte principale del dissesto finanziario del Comune. Dobbiamo infatti chiamare le cose con il loro nome: il Comune di Roma è virtualmente un Comune in dissesto, per la semplice ragione che non ha pareggio di bilancio. La situazione cui si è trovato di fronte il sindaco Marino, eletto a gestire qualcosa che forse non ipotizzava avesse connotati così drammatici, presentava un disavanzo di quasi di un miliardo di euro, che questo decreto riduce di circa la metà, senza tuttavia risolvere sostanzialmente il problema.
Ricordiamo che precedentemente, nel 2008, lo Stato si era accollato, mettendolo praticamente in una sorta di bad company – o di bad municipality (possiamo chiamarla anche così) – tutto lo stock del debito maturato fino a quella data e, quindi, ripulendo il bilancio di quella enorme zavorra che condizionava l’avvio della gestione Alemanno.
In Commissione abbiamo ascoltato il commissario straordinario per il piano di rientro del debito pregresso di Roma Capitale Varazzani il quale, presentandoci una ricognizione fino al luglio 2010, ci ha confermato che a quella data lo stock del debito trasferito alla gestione commissariale ammontava a circa 20 miliardi di euro; ha inoltre dichiarato che quel debito viene oggi pagato con una rata di liquidità pari a 500 milioni di euro così coperta: per 300 milioni di euro provvede lo Stato e per altri 200 milioni di euro si provvede con una parte di addizionale IRPEF pagata dai romani e con una parte di altre tasse pagate da tutti i contribuenti italiani quando si imbarcano in uno degli aeroporti romani. Complessivamente sui contribuenti pesano altri 500 milioni di euro. Come però affermato dal commissario Varazzani, questi soldi non sono sufficienti perché in prospettiva, dal 2016, si avrà bisogno di altro denaro solo per pagare quei 20 miliardi di euro già trasferiti alla gestione commissariale.
Nel primo decreto salva Roma era stato previsto non solo un trasferimento dello Stato, ma anche un’ulteriore addizionale IRPEF a carico dei romani, operazione che è stata bocciata da quest’Aula su nostra iniziativa e saggiamente non riproposta dal Governo nel nuovo decreto. Questo, per il semplice motivo che, se venisse introdotta un’ulteriore addizionale IRPEF, a Roma (e nel Lazio, in quanto Roma capoluogo della Regione), tra il 2014 e il 2015 si verrebbe a pagare il 5,3 per cento in più di IRPEF (che è già assicurato), più lo 0,3 per cento. Questo non ha solo un effetto insostenibile per i contribuenti romani, ma ha anche un effetto di depressione dell’economia che crea un moltiplicatore di diseconomia anche per il bilancio del comune di Roma e della regione Lazio. Cioè, noi siamo oltre quel livello superato il quale la pressione fiscale eccessiva crea decrescita economica e quindi riduzione del gettito fiscale. Questo, perciò, non si può fare. Allora, cosa bisogna fare? Bisogna cercare di evitare che questo disavanzo si riproduca, altrimenti l’effetto sarà che nel 2016 non solo dovremo pagare di più per ammortizzare i debiti che già ci sono, ma avremo anche altri debiti da caricare sul bilancio dello Stato, a un ritmo che attualmente corre, come si è visto, ad un miliardo per esercizio.
Il punto è che occorrono delle cure radicali e occorre soprattutto l’assunzione di responsabilità di un’intera classe dirigente, quella romana, che ha complessivamente prodotto questa situazione, anche se negli ultimi quattro anni c’è stato un aggravamento innegabile. Questa situazione è data da alcuni numeri. Nel settore delle municipalizzate (per occuparci solo di quelle, perché il comune di Roma ha anche un rapporto tra dipendenti e abitanti di gran lunga superiore rispetto alla media dei Comuni italiani: ma lasciamo perdere, perché questo si giustifica col fatto che il suo territorio è molto vasto, molto disperso, dunque ci sono molte circoscrizioni, si contano ben 21 partecipazioni dirette e in via indiretta il Comune di Roma detiene 140 pacchetti azionari). Il complesso di queste aziende occupa circa 25.000 dipendenti. Il grosso è assorbito da ATAC, che occupa quasi più dipendenti di Alitalia, e da AMA, ma ciò che va sottolineato è che tra il 2008 e il 2010 questo perimetro di dipendenti è aumentato di quasi 4.000 ulteriori unità, non solo nelle società di pubblico servizio, ma anche nelle cosiddette società in house, cioè quelle che svolgono per il Comune delle attività di rilevanza pubblica, come la progettazione immobiliare e la gestione dei servizi culturali, e che il Comune stesso finanzia a piè di lista trasferendo l’ammontare dei contratti di servizio.
Allora, se non si aggredisce tutto questo sistema, il bilancio del Comune di Roma non potrà essere risanato. Noi crediamo che il federalismo sia responsabilità e che non si possa invocare l’autonomia delle scelte da parte di chi ha prodotto irresponsabilmente questa situazione, scaricandola su tutti i contribuenti italiani. Da questo punto di vista siamo molto delusi. Abbiamo avviato un confronto con la relatrice e con il Governo, e ne parlerò quando entreremo nel merito. Intanto però posso dire che non c’è la determinazione delle scelte nel rapporto tra Governo, quindi responsabilità nazionale, ed enti locali, quindi responsabilità locali. Non solo: accordi pienamente fondati e realistici che si erano trovati all’interno della maggioranza sono saltati per l’influenza esterna dei partiti romani, che danno così il segno di non aver ancora capito la gravità della situazione. Se Roma vuole che non si dichiari il dissesto e che non provveda un commissario a fare ciò che va fatto, la politica romana deve intervenire. In questo senso noi insisteremo, anche nel corso della discussione, perché questo testo venga rafforzato. (Applausi dal Gruppo SCpI e dei senatori Candiani e D’Onghia).
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