I CENTRI PER L’IMPIEGO SECONDO IL MODELLO SVEDESE

CHE COSA POSSIAMO IMPARARE DALL’ESPERIENZA SCANDINAVA: DIRIGENTI LIBERI DI ASSUMERE E LICENZIARE, ACQUISTARE E VENDERE, MA SEVERAMENTE RESPONSABILIZZATI CIRCA IL RISULTATO

Articolo di Francesco Giubileo, ricercatore presso l’Università Milano-Bicocca, pubblicato sul sito Linkiesta, 17 dicembre 2013

 

Pubblici, gestiti con criteri meritocratici che in Italia sarebbero impensabili e, soprattutto, super-efficaci. Sono i centri per l’impiego svedesi, in questi giorni citati con sempre maggiore insistenza come un modello a cui guardare. A insistere sul confronto tra l’inefficacia di quelli italiani, per i quali prevede una riforma, e le ottime perfomance di quelli del Paese scandinavo è stato soprattutto il neo-segretario del Partito democratico Matteo Renzi. «Tre ragazzi su 100 in Italia trovano lavoro con i Centri per l’impiego – detto all’ultima Leopolda, lo scorso ottobre -, mentre in Svezia sono 41». Ma come funzionano questi Centri, e perché c’è tutta questa differenza con il caso italiano?
Va innanzitutto premesso che stiamo parlando di contesti difficilmente comparabili, a partire dall’utenza che si rivolge ai Centri per l’Impiego. Secondo i dati Eurostat in Italia a ricorrervi sono soprattutto coloro senza un lavoro da più di un anno, sintomo che il Cpi viene considerato come l’ultima “ruota del carro”, il luogo al quale si rivolge chi ha esaurito tutti gli altri canali per trovare lavoro. Viceversa in Svezia l’utenza è per il 77% costituita da persone che sono appena entrate in disoccupazione e spesso i servizi pubblici svedesi sono l’unico (e sufficiente) strumento utilizzato per ottenere il lavoro.

Il concreto contributo dell’attività di mediazione svedese dei Cpi, secondo i dati Eurostat, si collocava nel 2007 – periodo di “vacche grasse”– intorno al 14% (il dato del 41% citato da Renzi è quindi in realtà abbastanza “gonfiato”; la percentuale con punte del 70% è merito dei servizi di orientamento e dell’efficiente servizio online). Meglio non conoscere quello italiano, basti sapere che in molti casi quel 3% che Renzi menziona lo si vede con il binocolo.

Come funziona il modello svedese di collocamento
Alla base del successo del modello svedese ci sono tre aspetti: risorse destinate alle politiche del lavoro, governance dei servizi per l’impiego e loro valutazione.

Risorse
Le  spesa per i servizi per il lavoro in Svezia è nettamente più elevata che in Italia. Nonostante la Svezia abbia meno abitanti, spende per i Cpi circa un miliardo di euro all’anno, contro i circa 500 milioni dell’Italia, con un incremento rispetto a cinque anni fa di circa il 100 per cento. In percentuale rispetto al Prodotto interno lordo la distanza tra i Paesi è siderale: sarebbero necessari almeno quattro miliardi di euro per raggiungere  i livelli svedese di investimento nei servizi pubblici per l’impiego.
La differenza in termini di risorse si evidenzia chiaramente nel personale messo a disposizione per disoccupato e anche per inattivo.
Tuttavia, se osserviamo la spesa complessiva in politiche del lavoro, le differenze tra i due Paesi sembrano ridursi notevolmente. Questo dato, in realtà, dice molte cose.
In Italia, la Cassa integrazione (ordinaria e in deroga) brucia tutte le risorse delle politiche del lavoro, producendo spesso effetti devastanti nel mercato del lavoro. Tra questi vale la pena ricordare: il rischio di creare un effetto “tappo” nel mercato del lavoro (nessuno esce e nessuno entra) bloccando l’ingresso alle nuove generazioni anche quando una possibile ristrutturazione aziendale potrebbe salvare l’azienda; il deterioramento di capacità e professionalità dei lavoratori; l’affidamento della cassa più per motivi di consenso politico piuttosto che per una reale necessità. Fra l’altro, la tutela è stata spesso utilizzata come una “mobilità lunga”, mentre la cassa andrebbe erogata solo ad aziende in salute e non prossime al fallimento.

Il modello di politiche del lavoro svedese, cosa ci perdiamo ?
Come funziona il modello di welfare occupazionale svedese? Nel modello, chiamato “Lavoro per tutti”, sono le commissioni locali (sinonimo italiano di province o consorzi comunali) l’arma vincente del sistema. Queste commissioni, note come Lan (oggetto di riforma nel 2009), dirigono, coordinano e sviluppano le politiche del lavoro a livello territoriale e sono responsabili dei Centri per l’Impiego (circa 500 distribuiti prevalentemente nel Sud del paese). L’autonomia di gestione del budget da parte dei dirigenti è totale: possono assumere, licenziare e hanno la responsabilità del successo o meno di un determinato progetto. Una condizione che in Italia è semplice utopia.
La parte burocratica nei Cpi non esiste, perché è completamente affidata alle Casse di disoccupazione gestite dai sindacati oppure direttamente dal servizio centrale dell’Autorità per il Mercato del lavoro (Ams), nel caso dei soggetti non assicurati.
Inoltre, ogni utente che si rivolge ai Centri per l’impiego riceve una tripla valutazione: una “profilazione” oggettiva basata sulle caratteristiche del soggetto; una diagnosi sulla base del rischio di diventare disoccupato di lungo periodo e una intervista e valutazione da parte di un operatore (bilancio di competenza). Tutti gli operatori dei Cpi sono specializzati nelle diverse discipline: psicologi sociali (bilancio di competenze), specialisti di marketing e informatici (per i servizi alle imprese e l’analisi dei fabbisogni territoriali), esperti in facoltà di scienze politiche specializzate in tema di servizi al lavoro. Nei Cpi lavora la crème de la crème degli impiegati, ed è ben retribuita.
A seconda della distanza dal mercato del lavoro, ogni soggetto viene collocato all’interno di un particolare gruppo (esistono quattro fasce, così come avviene nei come nei Paesi Bassi), ognuno dei quali permette di accedere a specifici servizi a seconda del target di riferimento (non si erogano al laureato in lettere gli stessi servizi del disoccupato analfabeta di lungo periodo).
Spesso questi servizi sono erogati dall’attore privato e il rapporto con l’attore pubblico è di “coesistenza libera”, non è infatti  richiesta alcuna licenza o autorizzazione pubblica. Vi sono, fra l’altro, positive esperienze di partnership con attori privati per realizzare specifici progetti: note sono le collaborazioni tra Ams e Manpower nel collocamento di una piccola nicchia di mercato legata ai giovani disoccupati con titoli post–universitari. Nonostante la presenza di operatori privati, i Centri per l’impiego conservano un ruolo assolutamente centrale nel settore: nessuno si permetterebbe di considerarli degli “inutili” contenitori di curriculum e nessuno vorrebbe vedere la loro privatizzazione, sono un servizio estremamente efficiente e soprattutto totalmente gratis.
Inoltre, il personale dei Cpi svedesi è valutato costantemente dall’Ente per la valutazione delle politiche del lavoro (Ifau) e dall’Ufficio nazionale svedese di revisione (Rrv). In particolare, l’Rrv effettua, sia su richiesta del governo che di propria iniziativa, studi di valutazione in materia di politiche del lavoro. Il mancato raggiungimento degli obiettivi può comportare una riduzione delle risorse finanziarie e la sostituzione dei direttori delle agenzie pubbliche.

Infine, il vero successo dei centri svedesi consiste nelle politiche del lavoro messe in campo per supportare l’occupazione dei disoccupati (preparatevi, perché c’è da soffrire nel leggere cosa offrono alle persone in cerca di lavoro):
1) Un primo pilastro è quello degli incentivi alle assunzioni dei soggetti più svantaggiati: in Svezia dedicano alle imprese risorse pari al doppio (in percentuale sul Pil) di quelle previste in Italia e risorse ai fornitori di servizi di circa tre volte maggiori a quelle italiane. A queste si aggiungono le immense serie di esenzioni ai contributi sociali per le nuove assunzioni.
2) Altro importante comparto è quello della formazione professionale: tra l’ampia offerta è interessante il programma Employment training, formazione che promuove la mobilità occupazionale. In altri termini, in contesti dove non c’è lavoro l’attore pubblico forma e supporta economicamente le persone perché lo trovino in altri posti.
3) Per coloro che vogliono rimanere e tentare la via dell’impresa esistono due programmi: il Support for enterpreneurial startup e lo Start–Up Grants, che sono sostegni all’avvio di un’attività imprenditoriale. A differenza del caso italiano, offrono una ampia e costante assistenza è soprattutto un concreto sostegno economico.
4) Attraverso il Career Break (noto in altri Paesi come Job rotation) è possibile prendersi una pausa lavorativa per un determinato periodo (una specie di aspettativa ben retribuita) a patto che il posto di lavoro venga preso da un disoccupato iscritto ai Centri per l’impiego.
5) Per i giovani è previsto anche il programma Jobbgaranti för ungdomar, che combina, sempre a spese dello Stato, formazione e tirocinio per un periodo di 15 mesi.
6) Infine, una delle politiche del lavoro più interessanti è la Garanzia di sviluppo e di un posto di lavoro. Lo strumento parte come politica attiva, sviluppa programmi di inserimento (anche con accordi di partenariato con l’attore privato) e infine, in caso di esito negativo, si trasforma in un mix tra sostegno al reddito e creazione diretta da parte dell’attore pubblico di lavoro. Un intervento del genere modifica in maniera sostanziale il mercato del lavoro svedese, riducendo o cancellando il tasso di disoccupazione di lunga durata.

Insomma, il modello svedese sarà in crisi, ma paragonato a quello italiano rimane il “paradiso” in terra. Sono politiche molto costose, per questo va fatta una difficile scelta: lasciare che i cassaintegrati facciano da “conserva” per un anno, per poi trovarsi al punto di partenza (impensabile che l’ammortizzatore si trasformi in una tutela fino alla pensione, economicamente insostenibile ed eticamente scorretta nei confronti degli altri lavoratori) o tentare di migliorare i servizi per l’impiego, per dare qualche chance in più di trovare un lavoro (premesso che in Italia lo Stato non può dare un lavoro, ma che spetta ai disoccupati trovarlo o crearlo). Spero veramente per tutti noi che la seconda possibilità sia l’idea di riforma delle politiche del lavoro di Matteo Renzi.

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