LE DUE VERSIONI DEL “CONTRATTO UNICO”

LA DIFFERENZA TRA IL PROGETTO BOERI-GARIBALDI E IL PROGETTO DI CONTRATTO A PROTEZIONE PROGRESSIVA – LA NECESSITÀ DI AGIRE SU TRE LEVE: COSTO DEL LAVORO, SEMPLIFICAZIONE DELLA DISCIPLINA E SERVIZI NEL MERCATO DEL LAVORO

Intervista a cura di Tonia Mastrobuoni, pubblicata da La Stampa il 5 gennaio 2014 – In argomento v. anche  Il Job Act secondo Scelta Civica: scheda riassuntiva delle proposte presentate da SC in Parlamento tra aprile e agosto.

Professor Ichino, a giorni sarà presentato il Jobs act di Matteo Renzi; le indiscrezioni parlano di una proposta che dovrebbe ricalcare il contratto unico, dunque un contratto con tutele crescenti. Come dovrebbe essere congegnato, secondo lei?
Di quello schema conosciamo principalmente due versioni. Una è quella nota come “progetto Boeri-Garibaldi”, che prevede un contratto a tempo indeterminato reso più flessibile nel primo triennio con la facoltà di licenziamento dietro pagamento di una indennità di modesta entità, e con applicazione dell’articolo 18 dall’inizio del quarto anno in poi.

E l’altra?
È quella ora sostenuta da Scelta Civica, del contratto a protezione crescente in proporzione all’anzianità di servizio. La scelta aziendale del licenziamento resta insindacabile anche dopo il terzo anno, salvo il controllo giudiziale sulle discriminazioni e rappresaglie, ma l’impresa vede crescere gradualmente il costo di separazione, con un obbligo di trattamento integrativo di disoccupazione che rende progressivamente più robusto e di maggior durata il sostegno del reddito garantito al lavoratore e il servizio di assistenza intensiva erogato da un’agenzia di outplacement.

Che cosa non va secondo lei nel progetto Boeri-Garibaldi?
È comunque un passo avanti notevole. Ha però il difetto di quella soglia dei tre anni, che rischia di costituire uno spauracchio per le imprese. Inoltre, nel primo triennio ridurrei l’indennità di licenziamento a una mensilità per anno di anzianità, istituendone una di uguale entità per i contratti a termine acausali che non vengono prorogati o convertiti a tempo indeterminato.

I critici, come Stefano Fassina, parlano di un'”ossessione sull’articolo 18″ e dicono che è la ricetta sbagliata, che bisogna concentrarsi su misure per rilanciare la domanda, non abbassare le tutele. Analoga la perplessità di Scudiere, della Cgil, che ha parlato dell'”illusione della flessibilità”. Lei cosa ne pensa?
Fassina avrebbe ragione se intendesse dire che la vischiosità del sistema italiano non è generata soltanto dall’articolo 18: vi concorrono anche la cultura diffusa, la carenza dei servizi nel mercato del lavoro, l’orientamento prevalente della giurisprudenza in materia di licenziamento per motivi economici. Ma la vischiosità prodotta da tutti questi fattori c’è, eccome, e fa molto danno, ai lavoratori e alle imprese. Soprattutto in questa fase di riposizionamento dell’economia italiana in uscita dalla crisi.

Però anche la Confindustria tende a dire che l’articolo 18 non è un grave problema.
Certo: perché fin qui l’hanno risolto, d’accordo con i sindacati, mettendo i lavoratori in Cassa integrazione per anni. Se apprezzano quel sistema per ridurre gli organici è proprio perché esso consente loro di evitare l’invio delle lettere di licenziamento, con i conseguenti rischi giudiziali. Non appena la Cassa integrazione sarà ricondotta alla sua funzione originaria, che non è certo quella di sostituire il trattamento di disoccupazione, allora anche la Confindustria tornerà a mettere a fuoco il problema.

Cioè?
Il problema di un Paese nel quale tutto il sistema di protezione del lavoratore è ancora di fatto centrato sull’ingessatura del posto di lavoro. Nel quale, dunque, è troppo difficile il passaggio dei lavoratori da un’impresa che riduce l’attività o chiude a una che ha bisogno di manodopera qualificata.

Non pensa che senza un deciso intervento sul carico fiscale, anche il contratto unico rischierebbe di essere un flop? Il vantaggio, per le aziende, non è soltanto che i contratti flessibili sono a termine, ma che costano anche meno. O no?
Sì, occorre agire contemporaneamente su tre grandi leve. La prima è la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, per abbassare il costo del lavoro. La seconda è la riduzione dei disincentivi normativi all’assunzione a tempo indeterminato: occorre incoraggiare l’investimento dell’impresa sul lavoratore, in questo periodo di incertezza gravissima sul futuro anche a breve termine. La terza è il miglioramento dei servizi nel mercato del lavoro, attraverso la cooperazione con le agenzie private: qui lo strumento cardine è costituito dal contratto di ricollocazione. In una strategia di più lunga durata, poi, ha un’importanza cruciale anche la semplificazione normativa: quel Codice semplificato del lavoro di cui oggi tutti parlano, ma di cui soltanto Scelta Civica ha presentato un progetto preciso in 70 articoli, nero su bianco. Anche sui primi tre punti, del resto, Scelta Civica ha presentato dall’estate scorsa le proprie precise proposte operative.

In un momento di grande affanno sul fronte dei conti pubblici come l’attuale, come si potrebbero riformare gli ammortizzatori sociali?
Questa riforma è già compiutamente delineata nella legge Fornero, entrata in vigore nel luglio 2012. Che ha istituito un’assicurazione universale contro la disoccupazione di livello europeo e ha previsto la riconduzione entro tre anni della Cassa integrazione alla sua funzione originaria. Ora occorre attuare questa riforma, completandola con la possibilità di un trattamento complementare di disoccupazione incardinato sul “contratto di ricollocazione” di cui abbiamo parlato prima, e avviando il discorso sul reddito minimo di inserimento, che dovrà sostituire tutti i rivoli dell’assistenzialismo con cui oggi in Italia si risponde, in modo socialmente poco produttivo ed economicamente distorsivo, alla necessità di combattere le situazioni di povertà.

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