PER ME SAREBBE STATO PIU’ COMODO CONTINUARE LA MIA BATTAGLIA PER LA LENTA MATURAZIONE DELLE SCELTE NECESSARIE IN SENO AL PD, MA OGGI L’ITALIA NON PUO’ PERMETTERSI I TEMPI LUNGHI
Intervista a cura di David Allegranti, pubblicata sul Corriere Fiorentino il 12 gennaio 2013
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Senatore Ichino, perché lasciare il Pd e non restare a combattere la sua battaglia dentro il partito?
Senta, la mia battaglia dentro la sinistra l’ho combattuta per quarant’anni, senza impazienze. Quarant’anni passati a far maturare idee e proposte in materia di politica del lavoro che la sinistra ha sempre finito per fare sue, ma sempre mettendoci tempi lunghissimi, ogni volta intorno ai quindici anni. È andata così per il riconoscimento del part-time, per la politica di integrazione europea, per il superamento del monopolio statale dei servizi di collocamento, per il lavoro temporaneo tramite agenzia, per il decentramento della contrattazione collettiva; e potrei fare diversi altri esempi. Ormai c’ero abituato; e sarebbe stato anche più comodo per me continuare nel Pd anche per la prossima legislatura la mia battaglia sul terreno che considero cruciale oggi: quello della costruzione di un mercato e un diritto del lavoro allineati agli standard europei. Ma nella situazione gravissima in cui siamo, l’Italia non può più permettersi i ritardi della
sinistra su questo terreno. Che del resto sono speculari rispetto a quelli della destra.
La sua scelta non è piaciuta a Renzi, che lei ha sostenuto alle primarie.
Matteo Renzi ha preso un impegno personale, come candidato, a sostenere in ogni caso il vincitore. Noi che lo abbiamo votato, e anche sostenuto attivamente, non abbiamo preso lo stesso impegno. Non certo con la Carta d’Intenti, che Bersani all’inizio ci ha presentato come conferma solenne della scelta di tutto il Centrosinistra per la strategia concordata dall’Italia con i suoi partner europei, e il giorno dopo le primarie Vendola ha definito come “la pietra tombale” posta su quella strategia. Stessa cosa detta poi, anche se con espressioni diverse, dal responsabile dell’Economia del Pd una settimana dopo. D’altra parte, l’appello di Monti per un nuovo polo centrato sulla riforma europea dell’Italia è venuto dopo la conclusione delle primarie. E le cose nuove richiedono sempre, in qualche misura, che si rompa qualcosa delle vecchie: se no, il mondo non cambierebbe mai.
Ma la sua candidatura in Toscana non è marcatamente antirenziana?
No: se parliamo di contenuti programmatici è, proprio al contrario, la proposta politica più coerente per realizzare le cose che Renzi ha proposto nel suo programma, in materia di economia, lavoro, amministrazioni pubbliche, scuola, riduzione dei costi della politica e altro ancora.
Ma fuori del Pd.
Di quello che abbiamo proposto con Renzi nella campagna della primarie, nel programma del Pd c’è davvero poco e in modo molto confuso. Ma, soprattutto, la composizione delle sue liste, se si toglie qualche
“fiore all’occhiello” liberal, fa prevedere il freno a mano tirato su ciascuno dei punti chiave. E poi posso aggiungere una considerazione generale che mi sta a cuore?
Aggiunga pure.
Il partito non può essere concepito come una chiesa; o come una famiglia a cui si appartiene dalla culla alla tomba. L’atteggiamento di chi mi chiama “transfugo”, o peggio cerca di squalificarmi moralmente come un
apostata, nasce da quella concezione del partito, davvero sbagliata. Nel 2008 Veltroni mi ha chiesto di portare in Parlamento, nelle file del Pd, le mie idee e proposte; ho accettato, assumendo un vincolo di disciplina di gruppo che ho sempre rispettato rigorosamente nel voto in Senato, anche dopo che il partito
ha cambiato linea nell’ottobre 2009, fino allo scioglimento della legislatura. Però contemporaneamente ho anche assunto l’impegno con i miei lettori ed elettori a continuare a dire sempre liberamente tutto quello che penso, fino in fondo, anche se in contrasto con quello che la disciplina di voto mi imponeva. Se oggi, cessato quel mandato parlamentare, vedo nascere una nuova formazione, che non è un partitino ma un polo a vocazione maggioritaria, che mi consente di conciliare meglio la disciplina di gruppo con le mie idee e proposte, perché mai dovrei sentirmi in colpa per il fatto di scegliere di continuare in questa formazione la mia battaglia nella nuova legislatura, chiedendo ai miei elettori un mandato specifico che legittimi questa mia scelta?
È deluso dal comportamento del sindaco successivo alla sconfitta? Si sarebbe aspettato una difesa da parte sua?
No. Apprezzo molto lo stile e la sostanza del suo comportamento, del modo in cui ha mantenuto l’impegno preso. E capisco che, nella sua posizione, non potesse esprimere comprensione nei confronti della mia
scelta. Sono altre le cose che mi dispiacciono.
Quali?
Il tentativo più o meno esplicito di altri – certo non di Matteo Renzi – di squalificare moralmente la mia scelta, tacciandola di incoerenza o di opportunismo, mentre essa è per me il modo migliore per mantenere la coerenza con tutto quanto ho elaborato e proposto in questi ultimi anni. Ed è comunque la scelta per me più faticosa e più rischiosa. Tutti dimenticano che, quando ho rinunciato a presentarmi alle primarie dei candidati, il mio Segretario regionale mi ha offerto il posto nel listino dei “garantiti”.
Come spiega il silenzio di Renzi nell’ultimo mese?
Questo, effettivamente, non me lo spiego se non come una sorta di ricostituzione delle sue energie psichiche dopo lo sforzo enorme compiuto nella campagna per le primarie di novembre.
Condivide la frase di Monti su Fassina da “silenziare”?
No: lui stesso ha riconosciuto di aver usato una espressione infelice. Voleva solo dire che, per evitare l’ambiguità del Pd sulla questione cruciale della strategia europea dell’Italia, Bersani avrebbe dovuto smentire o correggere le parole di Fassina.
Nel Pd c’è chi ha esultato per il suo addio. Al di là di tutto, che rischi vede per la componente liberale dei Democratici?
Sono convinto che la componente liberal del Pd avrà tante più possibilità di ricostituirsi e prosperare, dopo la decimazione e il silenziamento che ha subito, quanto più sarà forte il nuovo polo europeista e riformatore che sta costituendosi intorno a Monti. Finora il Pd ha potuto permettersi i ritardi geologici di cui parlavo all’inizio e gli atteggiamenti sostanzialmente conservatori che ha tenuto e tiene in materia di lavoro, scuola, amministrazioni, allineamento all’Europa, perché aveva di fronte soltanto la sostanziale vacuità del centrodestra di Berlusconi.
Ma il centro montiano lotta per vincere o per impedire la vittoria di uno fra Bersani e Berlusconi e poi fare da ago della bilancia?
Quello montiano non è il “centro”. Perché il vero discrimine della politica italiana oggi non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi è convinto della
strategia che abbiamo concordato con i nostri partner europei per uscire insieme dalla crisi, e chi, come Vendola, Berlusconi, Maroni e alcuni dirigenti del Pd, è convinto che proprio quella strategia sia la causa dei nostri mali. Queste sono le due alternative tra cui gli italiani devono scegliere il 24 febbraio.
Ma il bipolarismo non era l’unico beneficio vero della stagione berlusconiana?
Quello dell’era berlusconiana è stato un pessimo bipolarismo, proprio perché la linea del fronte tra i due poli nasceva dalle vecchie divisioni ideologiche del secolo scorso, ma non corrispondeva ai veri interessi in conflitto, alle vere alternative di fronte alle quali il Paese si trovava e oggi più che mai si trova. La formazione che nasce con Monti mira a creare un nuovo bipolarismo positivo, sulla linea di discrimine che conta davvero per il futuro del Paese.
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