Pubblicato su Iustitia, marzo 2007
Sommario
1. Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90?
2. L’opzione exit: introdurre nel rapporto fra utenti e amministrazioni pubbliche meccanismi di mercato, dove questi possono funzionare.
3. L’opzione voice e il “tesoro nascosto” del civic auditing.
4. Perché (e come) una authority per la garanzia della trasparenza e della valutabilità delle amministrazioni pubbliche.
5. Perché il sindacato confederale non può defilarsi.
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1. – Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90 della nostra amministrazione pubblica, promosse dai ministri dell’epoca Sabino Cassese e Franco Bassanini?
Quando, nel 1993, si è esteso quasi interamente il diritto del lavoro privato al rapporto di impiego pubblico, l’idea da cui muoveva il legislatore era che il netto divario di efficienza tra i due settori fosse dovuto, per un verso, a un difetto di distinzione e separazione tra responsabilità di indirizzo politico e responsabilità di gestione, per altro verso a una disciplina che configurava il rapporto di impiego come rapporto autoritativo, di natura pubblicistica, sottoposto a controlli ex ante di legittimità formale degli atti, i quali prevalevano nettamente sui controlli di produttività ex post. Si è dunque definita meglio la distinzione tra indirizzo politico e responsabilità di gestione e si è sancita la natura contrattuale del rapporto, attivando l’autonomia negoziale delle parti sul piano collettivo come su quello individuale, così dando maggiori poteri e discrezionalità alla dirigenza pubblica e alla coalizione sindacale. Si è sancita esplicitamente la responsabilità dei dirigenti per il raggiungimento degli obbiettivi fissati dal potere politico, e si è affidato a quest’ultimo il compito di controllare che tali obbiettivi venissero effettivamente conseguiti.
La disciplina del rapporto di lavoro pubblico è stata così parificata quasi del tutto rispetto a quella vigente nelle aziende private. Non si è, però, tenuto adeguatamente conto del fatto che nel settore pubblico manca per lo più la “molla” potentissima che muove il dirigente privato, la concorrenza tra operatori diversi, che consente la dura sanzione del mercato contro l’inefficienza: una “molla” che il potere politico, per sua natura, non è capace di sostituire con l’esercizio di un controllo rigoroso e imparziale.
Nel mercato l’utente/cliente/consumatore sanziona l’inefficienza rivolgendosi altrove: egli esercita così quella che Albert O. Hirschman chiama l’opzione exit. Alternativa a questa è la possibilità di farsi sentire, denunciare le inefficienze, interloquire nelle scelte: l’opzione voice (che nel paradigma hirschmaniano può essere favorita dall’attaccamento all’istituzione/organizzazione ‑ loyalty ‑ e può consentire a quest’ultima di individuare più rapidamente ed efficacemente i difetti di funzionamento). Il problema fondamentale della nostra amministrazione pubblica sta nel fatto che in essa al cittadino non si dà né l’una opzione né l’altra: né exit, né voice. La voice contro l’inefficienza dovrebbe essere esercitata dalla cittadinanza attraverso i propri rappresentanti politici; ma questi tendono a interferire con l’amministrazione per fini del tutto diversi da quelli del miglioramento della sua efficienza.
Non ci si può stupire, dunque, che ne risulti un gravissimo difetto di stimoli al miglioramento dell’efficienza dell’amministrazione stessa. Si sono dati al management pubblico gli stessi poteri, la stessa discrezionalità, di cui dispone il management delle imprese private, ma in un contesto in cui – nella maggior parte dei casi ‑ il cattivo o mancato esercizio degli stessi non è sanzionato né dal mercato, né dal controllo del cittadino-utente, strutturalmente mal rappresentato in questa funzione dal potere politico.
2. ‑ Quando la libertà di scelta dell’utente sia effettiva, cioè siano garantite concorrenza aperta tra operatori e simmetria di informazione, l’opzione exit costituisce una grande garanzia di equità e di benessere per l’utente medesimo. Dovunque sia possibile offrire al cittadino questa opzione, in un settore dei servizi pubblici, e collegare ad essa il flusso delle risorse, questo consente di attivare uno stimolo assai efficace nei confronti della dirigenza di quel settore (anche se – avverte ancora Hirschman – questo sistema può presentare il difetto di privare il management della denuncia tempestiva del difetto di funzionamento da parte dell’utente, per il quale l’opzione exit può essere sovente più comoda e vantaggiosa rispetto all’opzione voice; questo può portare al collasso e alla sostituzione della struttura inefficiente, invece che al suo risanamento; torneremo sul punto fra breve).
Una libertà di scelta effettiva oggi è offerta all’utente, in qualche misura, nel settore dell’istruzione e in quello della sanità; ma potrebbe essere offerta anche altrove, e anche in modo assai più esteso e incisivo. Se, per esempio, il finanziamento pubblico delle scuole e delle università avvenisse interamente attraverso il sistema dei vouchers (previa abolizione del valore legale dei titoli di studio), gli istituti e gli atenei dove si scelgono male i professori, o comunque dove si insegna poco e male, sarebbero costretti a chiudere; e se, nell’istituire quel sistema, si attribuisse ai rettori e ai presidi una piena discrezionalità nella selezione e nella gestione delle risorse, allora li vedremmo assai più e meglio mobilitati di quanto non siano oggi per scegliere i professori migliori, per stanare quelli inerti dalle loro nicchie; li vedremmo attivarsi dove possibile per sanzionare gli assenteisti e allontanare gli incompetenti, per spostare le persone di cui dispongono dove esse sono più utili e non dove fa più comodo alle persone stesse.
Nel rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini si possono introdurre anche altri meccanismi di mercato che diano agli utenti, almeno in parte, un’opzione exit: per esempio, si può mettere gli sportelli di uno stesso servizio (anagrafe comunale, rinnovo della patente di guida, rinnovo del passaporto, ecc.) in concorrenza tra loro, attribuendo un premio agli addetti allo sportello che riesce ad attirare più utenti o a dimostrarsi comunque più efficiente: qualche cosa di questo genere è previsto nella recentissima legge regionale lombarda sui servizi al mercato del lavoro (n. 22/2006, particolarmente articoli 16-17), emanata con un voto sostanzialmente bi-partisan nel settembre scorso.
3 – In molti settori dell’amministrazione pubblica, però, i meccanismi lato sensu “di mercato” del tipo di quelli menzionati nel paragrafo precedente non si possono introdurre. Per esempio, se un corpo municipale di vigili urbani funziona male, non si può consentire ai cittadini di avvalersi di un altro corpo di vigilanza concorrente, o premiare con un maggiore flusso di risorse un servizio alternativo. Si è anche visto, d’altra parte, come possa persino sostenersi, almeno in certi casi, la preferibilità dei meccanismi di voice rispetto ai meccanismi di exit, per la più rapida individuazione dei difetti di funzionamento di un’amministrazione e la prevenzione del suo deterioramento e del suo collasso.
Dare voce al cittadino-utente presuppone, innanzitutto, che egli sia compiutamente informato; questo richiede che le amministrazioni stesse siano dotate di organi deputati a raccogliere ed elaborare tutti i dati rilevanti, a valutarli, a farlo in piena indipendenza dal management che deve esserne valutato; e a farlo in modo trasparente, consentendo la piena accessibilità dei dati per chiunque vi sia interessato. Il panorama internazionale ci offre su questo terreno molte esperienze di grande interesse: ad esempio nel settore scolastico, in quello della formazione professionale, in quello dei servizi nel mercato del lavoro, dove da decenni ormai vengono sperimentati e affinati metodi e tecniche di rilevazione degli indici di efficienza ed efficacia dei servizi, ovviamente diversi da settore a settore.
Un’esperienza di grande interesse, in questo campo, è costituita dall’Internet-based Reputation System: un sistema di rilevazione ed elaborazione in tempo reale delle valutazioni degli utenti sulla qualità del servizio ricevuto, con immediata pubblicazione in rete delle valutazioni stesse, che diventano in questo modo una preziosa fonte di informazione per i nuovi utenti (e orientamento nella scelta, quando questa è loro consentita), ma anche per i dirigenti del comparto.
Un altro aspetto molto interessante di queste esperienze è la combinazione tra autovalutazione dell’amministrazione, che si esprime solitamente nella pubblicazione di un annual report, e confronto con la valutazione dall’esterno, espressa spontaneamente dalla cittadinanza attraverso i propri osservatori qualificati, secondo il metodo della public review.
Dove le associazioni degli utenti, i giornalisti specializzati, i centri di ricerca, dispongono dei dati necessari, essi sono capaci di controllare l’efficienza e produttività delle strutture pubbliche talora persino meglio di quanto ne siano capaci le strutture stesse. Questa capacità costituisce una risorsa preziosa, un grande “tesoro nascosto” che può essere attivato e utilizzato dalle amministrazioni pubbliche a costo zero: basta imporre il principio della totale accessibilità dei dati. L’introduzione di questo principio può avere un impatto positivo persino superiore rispetto all’istituzione degli organi interni di valutazione, che pure sono indispensabili.
Di questa pratica del civil auditing non abbiamo soltanto alcuni esempi importanti nei Paesi del Nord-Europa, ma anche qualche primo esempio in casa nostra: si pensi, in particolare, all’esperienza che stanno svolgendo associazioni come Cittadinanzattiva e alcune altre nel settore sanitario. Proprio alla valorizzazione di questo “tesoro nascosto” mira la legge emanata recentemente negli U.S.A., il Federal Funding Accountability and Transparency Act 2006, che obbliga chiunque operi con finanziamenti federali a porre in rete, a piena e immediata disposizione del pubblico, tutti i dati relativi alla propria attività.
Introdurre questo principio anche nel nostro sistema potrebbe avere un effetto tonificante straordinario. Immaginiamo, per esempio, che in una grande città ‑ come Milano o Napoli – venga garantita la totale disponibilità, per chiunque vi sia interessato, dei dati analitici sul funzionamento del servizio di vigilanza urbana: le retribuzioni degli agenti, gli orari di lavoro, le mansioni effettive, le assenze e i motivi che le giustificano, quanti si occupano del commercio, quanti del traffico, quante contravvenzioni ciascuno di questi ultimi ha verbalizzato, quante e quali sanzioni disciplinari sono state irrogate, per quali mancanze, e così via. Immaginiamo poi che, applicandosi il metodo della public review, una volta all’anno l’organo di controllo comunale sia tenuto a confrontare in un dibattito pubblico le proprie valutazioni con quelle espresse dalla società civile, attraverso gli osservatori qualificati di cui si è detto sopra. Solo allora si incomincerebbe a scoprire e a misurare con precisione, per esempio, di quanto l’impegno di alcuni vigili sia maggiore dell’impegno di altri, di quanto il tasso di assenteismo e quello dei vigili imboscati negli uffici sia superiore a quelli che si registrano nelle altre città europee, se e quanto le promozioni siano in rapporto con il merito effettivo, quanto più raro sia vedere un vigile in un quartiere periferico della città rispetto al centro, quanto sia difficile ottenere l’intervento di un vigile in piena notte, quanto e quando sia esercitato effettivamente il potere disciplinare, quale sia il tasso di soddisfazione della cittadinanza per il servizio e tanti altri dati importanti ancora. E a quel punto anche gli obbiettivi di miglioramento del servizio, invece che essere negoziati tra potere politico e management nel chiuso di un ufficio, potrebbero essere discussi pubblicamente e decisi dall’autorità politica sotto il controllo effettivo della cittadinanza.
Oggi i nostri ricercatori possono accedere a tutti i dati relativi alle amministrazioni della California o della Svezia, ma non a quelli relativi alle amministrazioni italiane, che si tratti della vigilanza urbana o della giustizia, di personale sanitario o di professori. Da noi vige di fatto il principio esattamente contrario a quello della trasparenza; la prassi (giuridicamente infondata) è quella del segreto. Questo viene sovente giustificato con la protezione della privacy degli addetti al servizio; ma il principio della privacy ‑ cioè della protezione della vita privata delle persone ‑ qui non c’entra per nulla: il riserbo con cui si occultano i dati analitici sul funzionamento delle nostre amministrazioni risponde semmai all’antico principio di inaccessibilità degli arcana imperii, che da sempre protegge i poteri autoritari, i sovrani assoluti. Oggi da noi esso protegge le posizioni di rendita diffusamente annidate nelle pieghe del pubblico impiego, a cominciare da quelle dei dirigenti negligenti o inetti. In un regime veramente democratico, invece, dell’attività del civil servant, soprattutto dove non operino meccanismi di mercato, deve potersi conoscere tutto.
4. – Attivare la capacità di autovalutazione da parte delle amministrazioni pubbliche, garantire la trasparenza di tale valutazione e stimolare il pieno coinvolgimento della cittadinanza nel controllo sono i cardini del progetto di legge per l’istituzione di una Autorità indipendente per il pubblico impiego, che è stato presentato nel dicembre scorso alla Camera e al Senato da parlamentari di maggioranza e di opposizione (lo si può leggere nel sito www.lavoce.info).
L’istituenda Autorità indipendente, secondo questo progetto, deve essere molto snella e poco costosa per lo Stato (essendo costituita quasi interamente con risorse provenienti da altri organismi centrali che vengono contestualmente sciolti): i compiti che il progetto si propone di assegnarle non sono, infatti, di valutazione diretta, “dall’alto” o “dall’esterno”, bensì compiti – per così dire – di secondo grado o di “meta-valutazione”. In particolare, le si chiede di:
‑ sollecitare e controllare la costituzione, in ogni comparto amministativo e in ogni centro di servizi, dei nuclei di valutazione già previsti dalla “legge Bassanini” n. 286/1999 (nella maggior parte dei casi a tutt’oggi disapplicata per questo aspetto): questo per stimolare la capacità di auto-valutazione delle amministrazioni e non, di regola, per sovrapporre una valutazione esterna a quella che ciascuna amministrazione è in grado di produrre sulla propria performance;
‑ garantire l’indipendenza dei nuclei di valutazione dal management che deve esserne controllato (è questo un aspetto che nella legge del 1999 è stato trascurato);
‑ garantire la trasparenza dell’operato dei nuclei di valutazione e l’accessibilità totale dei dati di cui essi dispongono, anche prima che essi vengano elaborati (garanzia nella quale rientra anche l’arbitrato tra il cittadino che chiede i dati e l’ufficio che oppone il segreto, o fa difficoltà, o li dà in modo reticente);
‑ garantire il confronto pubblico periodico tra valutazione interna e valutazioni esterne, secondo il metodo della public review;
‑ diffondere benchmark, tecniche, esperienze straniere e nuove metodologie di valutazione;
‑ solo in via sussidiaria ed eccezionale, intervenire con la propria valutazione in sovrapposizione rispetto al nucleo di valutazione interno carente o inefficiente, o a sostegno dello stesso, per rafforzare le misure tese a correggere la disfunzione amministrativa.
Un’Autorità indipendente può diventare il punto di riferimento per una società civile cui si chiede di attivarsi nell’opera di valutazione parallela e concorrente con quella di autovalutazione svolta dalle singole amministrazioni. “Concorrenza” assai utile, perché è importantissimo che intelligenze, tecniche e ottiche differenti di valutazione si attivino e si confrontino apertamente su questo terreno.
Dovunque non sia possibile attivare meccanismi di mercato nell’amministrazione pubblica – e con essi garantire agli utenti l’opzione exit contro l’amministrazione inefficiente – è essenziale che sia garantita agli utenti stessi, alla cittadinanza, almeno l’opzione voice. E come è ragionevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia dell’opzione exit, là dove il mercato può effettivamente operare, allo stesso modo e altrettanto è ragionevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia della trasparenza e dell’opzione voice, dove il mercato non può operare o si preferisce comunque che esso non operi.
5 – A questo progetto di riforma qualcuno obietta che nulla sarà possibile, per un miglioramento dell’efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche, finché i sindacati del settore manterranno una posizione di sostanziale resistenza conservatrice. Ma anche su questo terreno vi è qualche motivo per essere ottimisti.
Il memorandum sottoscritto dal Governo con le confederazioni sindacali maggiori il 18 gennaio scorso contiene alcune novità rilevanti, che non vanno sottovalutate: vi compaiono, per la prima volta in un documento di questo genere e livello, parole-chiave come “valutazione dell’efficienza”, “controllo della produttività individuale”, “trasparenza”, “piena accessibilità delle informazioni” per gli osservatori esterni. Certo, una lettura attenta ne rivela alcuni difetti, anche gravi; ma questo non toglie il significato di svolta che, almeno sul piano dei principi, questo accordo assume.
Ora tocca al Parlamento dire la sua. Nella parte migliore del memorandum sono enunciati principi identici rispetto al progetto di legge che è all’esame delle Camere; la differenza sta nelle gambe che questo progetto di legge intende dare a quei principi per consentire loro di camminare, cioè negli strumenti di controllo e valutazione che ci si propone di attivare, in aggiunta (non in contrapposizione) a quelli previsti nel documento sottoscritto da Governo e sindacati. Il datore di lavoro pubblico deve essere libero di dotarsi di questi strumenti. Sarebbe comunque inammissibile che il sindacato pretendesse di impedirglielo, sostenendo che il memorandum esaurisca ogni possibilità di iniziativa ulteriore: questa non è una materia sulla quale il potere legislativo possa essere limitato, né tanto meno vincolato, da un accordo sindacale.
Il sindacato, d’altra parte, non può permettersi l’immobilismo. Nel 1980 un evento che solo due o tre anni prima sarebbe stato considerato impossibile, la marcia dei 40.000 di Torino, segnò una svolta drastica rispetto agli eccessi di egualitarismo delle politiche retributive perseguite dai sindacati maggiori nel settore privato, nel corso del decennio precedente. Non è dunque impensabile che un’iniziativa politica incisiva, oggi, segni una analoga drastica svolta rispetto all’eccesso evidentissimo di egualitarismo proprio del regime attuale dell’impiego pubblico, che è persino più spinto rispetto a quello che dominò nel settore privato negli anni ’70.
Oggi occorre far leva sulla crescente insofferenza, ben percepibile all’interno delle amministrazioni pubbliche, da parte di chi tira la carretta lavorando per due, nei confronti di questa grave doppia ingiustizia: essere pagato (poco) esattamente come chi non lavora affatto e al tempo stesso essere accomunato al nullafacente nel discredito generale che investe l’impiego pubblico. Far leva su questa sacrosanta insofferenza è possibile proprio attivando i meccanismi di autovalutazione delle strutture e di civic auditing, di cui si è detto sopra.
Un sindacato che ignorasse quel disagio diffuso sarebbe destinato a un declino forse lento, sicuramente accompagnato dal progressivo abbandono dei lavoratori pubblici migliori. Ma il movimento sindacale italiano oggi dispone delle risorse culturali e morali necessarie per evitare questo esito; il sindacato può, anche nel settore pubblico, recuperare la funzione di “intelligenza collettiva” che consente ai lavoratori di valutare la bontà di un progetto e investire su di esso il proprio consenso e il proprio lavoro.