UN GIURISTA E UN ECONOMISTA COMMENTANO IL DISEGNO DI LEGGE CHE PROBABILMENTE VERRÀ APPROVATO IN SECONDA LETTURA ENTRO LA PROSSIMA SETTIMANA
Saggio di Marco Leonardi, ricercatore di economia politica dell’Università degli Studi di Milano, e di Massimo Pallini, professore di diritto del lavoro della stessa Università, pubblicata sulla rivista Il Mulino, n. 3/2012, giugno 2012 – In argomento v. anche la mia relazione al convegno di Pescara dell’11 maggio 2012
N.B. In questo saggio di Marco Leonardi e Massimo Pallini si fa ancora riferimento alla numerazione degli articoli del testo legislativo uscito dalla Commissione Lavoro del Senato, che non corrisponde alla numerazione del testo definitivo.
In questo articolo valutiamo punto per punto il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro Monti-Fornero sulle linee direttrici che quest’ ultimo si è proposto di percorrere:
– (1) ribadire e valorizzare il contratto di lavoro a tempo indeterminato come “contratto dominante” ovvero forma comune del rapporto di lavoro;
– (2) ridistribuire più equamente le tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni;
– (3) adeguare la disciplina del licenziamento individuale per alcuni specifici motivi oggettivi alle esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento;
– (4) rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive a contorno.
L’impianto della riforma è condivisibile e in linea con i contenuti di diversi progetti di contratto unico elaborati negli ultimi anni (Boeri-Garibaldi, Ichino, Leonardi-Pallini), seppur ognuno di questi indicasse soluzioni diverse secondo le stesse linee direttrici. In particolare tutti i progetti precedenti, e questa riforma, riconoscono che non è possibile raggiungere gli obiettivi (1), (2), e (4) senza in qualche modo toccare la disciplina del licenziamento individuale per alcuni specifici motivi oggettivi di cui al punto (3).
In questo articolo vorremmo fare un’analisi punto per punto valutando il complesso della riforma. Per esigenze di spazio ci concentreremo sul tema dell’articolo 18 che rimane il punto più delicato della riforma sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista tecnico. Tuttavia l’impianto della riforma ha un equilibrio tra i diversi punti in cui il tutto si tiene e si compensa. A questo proposito sorprende la radicalità delle opinioni riguardo alla riforma (delle parti sociali ma anche di illustri commentatori) con riferimento quasi esclusivo alla possibilità del reintegro nel licenziamento individuale per alcuni specifici motivi oggettivi e ancor di più il repentino rovesciamento delle opinioni degli stessi commentatori nel corso dell’aggiustamento della riforma che ha previsto prima l’esclusione del reintegro e poi la sua reintroduzione ma solo per alcuni specifici motivi oggettivi “manifestamente insussistenti”.
(1) Tipologie contrattuali.
Il primo aspetto investito dalla riforma riguarda il riordino dei tipi contrattuali al fine di impedire il fenomeno della “fuga dal lavoro subordinato” cui si assiste da oltre venti anni. Poiché il diritto del lavoro italiano si è fortemente caratterizzato come “duale” – tutte le tutele per i lavoratori (e specularmente i vincoli e gli oneri per i datori di lavoro) trovano applicazione nei confronti del lavoro subordinato, mentre il lavoro autonomo è sostanzialmente non regolato dalla legge ma governato dalla autonomia negoziale delle parti del contratto del lavoro – le imprese sono state indotte progressivamente a far sempre più ricorso, anche in modo spesso abusivo, a tipi di rapporti di lavoro autonomo e a rifuggire il lavoro subordinato sia per comprimere il costo ma anche per guadagnare margini di flessibilità gestionale.
Per il primo profilo la riforma del ministro Fornero mira ad elevare il contratto di apprendistato, che è una tipologia di contratto di lavoro subordinato, a modalità “prevalente” per l’ingresso nel mercato del lavoro. Si prevede infatti l’abrogazione del contratto di inserimento¹. La riforma interviene a modifica della legge n. 167/2011 cercando di limitare le possibilità di abusi di questo contratto da parte delle imprese.
Allo stesso tempo la riforma cerca di limitare la possibilità di reiterazioni di contratti a termine. Se è vero che la riforma “liberalizza” la prima assunzione a termine di un lavoratore (anche con contratto di somministrazione) per una durata massima di 6 mesi, non prorogabile, sollevando l’azienda in questo caso dall’onere di comprovare la sussistenza di requisiti tecnici, produttivi, organizzativi o sostitutivi che giustifichino l’apposizione del termine, al contempo la riforma disincentiva l’impresa a instaurare contratti a termine gravandoli di un contributivo aggiuntivo (pari all’1,4%) in ragione della maggiore propensione dei lavoratori a termine a fruire di strumenti assicurative a sostegno del reddito in stato di disoccupazione. Tale maggiorazione contributiva viene però recuperata dall’impresa se il rapporto viene convertito a tempo indeterminato.
(2) Redistribuire più equamente le tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni.
Per i contratti di lavoro a progetto la riforma prevede una definizione più stringente del progetto. La mancata individuazione del progetto determina ipso facto la trasformazione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa in rapporto di lavoro subordinato. Si limita anche la possibilità di ricorre a prestazioni di lavoro autonomo con partita IVA. Si introduce una presunzione di diritto secondo cui tali rapporti sono di collaborazione coordinata e continuativa (e quindi trasformabili della collaborazione in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato) qualora ricorrano almeno due dei seguenti presupposti: a) che la durata della collaborazione superiore a sei mesi nell’arco di un anno solare; b) che il ricavo dei corrispettivi percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare superi la misura del 75%; c) che il prestatore abbia la disponibilità di una postazione di lavoro presso il committente.
La riforma dispone in maniera progressiva l’aumento contributivo per i lavoratori iscritti alla Gestione separata dell’INPS, fino a raggiungere l’aliquota del 33% a decorrere dall’anno 2018. Questa impostazione ha l’intento di rendere il costo del lavoro autonomo uguale o perfino superiore al costo di un dipendente a tempo indeterminato. Non si può sottacere il rischio che gli autonomi veri possano subire un aumento ingiustificato dei loro oneri in quanto con la parificazione delle aliquote contributive non si ottiene necessariamente la parificazione della convenienza economica dei due tipi di contratto, non solo per la presenza dei costi di licenziamento sui contratti a tempo indeterminato ma perché in assenza di minimi salariali ogni aumento contributivo può essere facilmente translato su un minore salario per la finta partita IVA (Leonardi e Pica, 2010).²
Con questa serie di meccanismi di presunzione non soltanto si realizza un sistema di repressione degli abusi ma si introduce una nuova e più chiara ripartizione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, in coerenza con le indicazioni della Corte di giustizia europea che li distingue non in relazione al tipo di vincolo rispetto al committente (se subordinazione e coordinamento), ma rispetto alla loro posizione sul mercato, identificando sostanzialmente il lavoratore autonomo con una “impresa individuale” capace di vendere a terzi un bene o un servizio (anche professionale o consulenziale)
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(3) Adeguare la disciplina del licenziamento individuale per alcuni specifici motivi oggettivi alle esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento.
A fronte delle stringenti limitazioni all’utilizzo di lavoro autonomo in modo continuativo in seno all’organizzazione d’impresa il disegno di legge cerca di realizzare una sorta di compensazione virtuosa inserendo margini di flessibilità in entrata e in uscita nel tipo contrattuale “standard” di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La riforma non interviene sulle ragioni giustificatrici del licenziamento, che rimangono disciplinate dall’art. 3 della legge n. 604/66. La reintegrazione, con il connesso diritto a tutte le retribuzioni non percepite dal momento del licenziamento sino alla effettiva reintegrazione, viene mantenuta nei casi di licenziamenti cc.dd. discriminatori, adottati cioè per ragioni tassative che la legge qualifica espressamente quali causa di nullità degli atti datoriali (per discriminazione per genere, età, opinioni politiche, appartenenza sindacale, disabilità etc.).
Se il licenziamento è adottato per motivi disciplinari adducendo condotte infedeli o inadempienti del lavoratore, la tutela reintegratoria trova applicazione soltanto se la condotta contestata al lavoratore risulti insussistente o sia sanzionata secondo le previsioni del contratto collettivo. Questa tutela trova applicazione anche avverso il licenziamento adottati per giustificato motivo oggettivo (cc.dd. licenziamenti economici) quando il fatto e le circostanze che il datore di lavoro ha addotto a giustificazione del licenziamento risultano non vere e insussistenti oppure quando nei licenziamenti collettivi vengano violati i criteri di scelta dai lavoratori da licenziare.
In effetti in tutte le altre ipotesi in cui il licenziamento per motivi disciplinari o il licenziamento per motivi economici sia ritenuto illegittimo la riforme prevede inequivocabilmente che il datore sia sanzionato soltanto con la condanna al pagamento di una indennità in favore del lavoratore da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità che determinerà equitativamente il giudice alla luce dell’anzianità del lavoratore, delle dimensioni aziendali, delle ragioni addotte per il licenziamento, della condotta delle parti.
I vizi formali o procedimentali, che non investono cioè la veridicità o fondatezza o proporzionalità delle circostanze addotte a giustificazione del licenziamento, comportano sia per i licenziamenti individuali sia per quelli collettivi l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere al lavoratore una indennità determinata equitativamente dal giudice da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità di retribuzione.
La riforma dunque avvicina molto il nostro sistema di tutela a quello tedesco, in cui la tutela reintegratoria costituisce l’eccezione ed è disposta dai giudici solo nel caso in cui il motivo economico risulti inesistente e celi in realtà un motivo discriminatorio. Questa parziale diminuzione di tutela rispetto al sistema attuale previsto dall’ordinamento italiano appare un prezzo quanto mai accettabile se compensato dalla riconduzione nell’alveo del lavoro subordinato di quel inarrestabile flusso di contratti di lavoro autonomo di ingresso di giovani nel mondo del lavoro senza alcuna tutela di stabilità, di retribuzione minima, di garanzia di tutele apprezzabili avverso i rischi di malattia.
Semmai l’aspetto problematico della riforma è quello di sovraccaricare la funzione e la discrezionalità del giudice senza introdurre efficaci meccanismi di prevenzione e deflazione del contenzioso. Il disegno di legge, infatti, non avendo semplificato i criteri per accertare la legittimità del licenziamento ed avendo anzi introdotto una nuova assai complessa distinzione tra le fattispecie di licenziamento avverso cui il lavoratore gode di una tutela reintegratoria o risarcitoria, rischia di incrementare l’incertezza dei giudizi invece di ridurla. Si finisce, infatti, per rimettere esclusivamente alla discrezionalità dei giudici la valutazione sia della stessa qualificazione del licenziamento (se per motivi discriminatori, disciplinari o economici), sia della effettiva sussistenza delle cause di giustificazione del licenziamento (mantenendo pericolosamente invariate quelle attuali fonte di disparate interpretazioni), sia infine della tipologia (se reintegrazione o risarcimento economico) e dell’entità (da 15 a 24 mensilità) del provvedimento con cui sanzionare i licenziamenti disciplinari ed economici ritenuti illegittimi.
Indubbiamente il Governo non ha ignorato questo rischio e ha cercato di comprimerlo introducendo una procedura obbligatoria di conciliazione preventiva all’adozione del licenziamento per motivi economici e un rito processuale accelerato per i processi in materia di licenziamento. In particolare la procedura di conciliazione deve essere esperita dal datore di lavoro dinanzi alla Commissione provinciale presso la Direzione territoriale del lavoro. E’ previsto che nel corso della procedura le parti possano farsi assistere da rappresentanti sindacali, avvocati o consulenti del lavoro. Tale procedura, contraddistinta da caratteristiche di snellezza e celerità, deve chiudesi entro 7 gg. e costituisce condizione di procedibilità ai fini dell’intimazione del licenziamento. In caso di violazione della procedura in questione, il licenziamento è inefficace.
Tali rimedi appaiono scarsamente efficaci al fine di evitare il contenzioso giudiziario. A nostro avviso si potrebbe forse porre rimedio disponendo che l’indennità di licenziamento divenga automatica al momento del licenziamento e non solo all’esito positivo per il lavoratore di una controversia giudiziale, si atteggi cioè in termini di “severance pay”. Funziona già così in molti paesi europei (tra cui Francia e Germania) alcuni di questi non prevedono il reintegro (UK). In particolare l’OECD assegna alla indennità un punteggio molto più alto nell’indice di protezione del licenziamento individuale rispetto al reintegro. OECD ritiene cioè che stabilire una cifra alta e automatica a carico dell’impresa sia un valido deterrente del licenziamento individuale.
Sarebbe senz’altro più efficace per ridurre il contenzioso giudiziale l’adottare un meccanismo analogo a quello introdotto nell’ordinamento tedesco dalla riforma Hartz approvata dal governo socialdemocratico di Schroeder (anche nel caso tedesco questa norma fu introdotta più tardi in aggiunta ad una riforma complessiva): prevedere che l’azienda laddove intenda adottare un licenziamento per giustificato motivo debba corrispondere al lavoratore una indennità in cifra variabile a seconda dell’anzianità di servizio. Il lavoratore, se accetta la corresponsione della indennità, decade automaticamente dal diritto di impugnare il licenziamento. Laddove invece il lavoratore sia convinto della insussistenza del giustificato motivo di licenziamento o ritenga che celi delle finalità illecite e discriminatorie, può rifiutare la corresponsione della indennità e affrontare il giudizio per cercare di ottenere la reintegrazione o il risarcimento del danno.
Questo meccanismo per un verso responsabilizzerebbe l’impresa imponendole un costo certo in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, costringendola a verificare seriamente se il licenziamento del lavoratore compensa quel costo; per altro verso responsabilizzerebbe il lavoratore per cui non è più indifferente decidere di impugnare o meno il licenziamento e dunque valuterà attentamente se affrontare o meno il giudizio. In Germania tale cifra è stata fissata ad un livello troppo basso di 0.5 mensilità per anno di anzianità, si è pensato di fissare un minimo, ma il risultato è stato che la maggior parte va comunque in giudizio. Bisognerebbe fissare una cifra che si avvicini al massimo che l’impresa è disposta a pagare cosicché essa risulti un filtro assai certo della volontà dell’impresa e renda difficile al lavoratore andare in giudizio con la speranza di ottenere di più.
Inoltre appaiono anche eccessivi i margini di discrezionalità concessi al giudice nel determinare l’entità del risarcimento tra il minimo e il massimo previsto per legge, mentre risulta troppo ristretto il range tra quest’ultimi. L’indennità per il licenziamento economico, al momento è fissata tra le 15 e le 24 mensilità ma non è modulata chiaramente in relazione all’anzianità di servizio ma è fissata in base a non precisati “criteri diversi”. La conseguenza è che 15 mensilità, sono troppo onerose nella fase iniziale dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, i quali sono così resi troppo poco appetibili in sostituzione delle collaborazioni autonome continuative e dei contratti a termine. Sarebbe più opportuno ampliare la distanza tra entità minima del risarcimento e quella massima e collegare la quantificare dell’indennità in modo diretto e crescente con l’anzianità di servizio in modo da non “sovra-tutelare” i neo assunti e da non penalizzare le anzianità più alte.
(4) Rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive a contorno
Il sistema degli ammortizzatori italiani ha tradizionalmente due punti di particolare debolezza: (i) chi ha un contratto parasubordinato e perde il lavoro è escluso da molte protezioni pur a fronte di un rischio di disoccupazione quasi cinque volte superiore; (ii) il sistema tratta i licenziati dalle piccole imprese in modo infinitamente peggiore di chi viene licenziato da quelle grandi perchè CIG e CIGS (che come l’indennità di mobilità sono soggette all’approvazione discrezionale da parte dell’autorità pubblica e non conferiscono diritti soggettivi in capo al lavoratore) sono riservate alle imprese più grandi.
Il progetto di legge mira a separare nettamente i sussidi di disoccupazione dalle integrazioni salariali in caso di riduzione delle ore lavorate, cioè la cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria (che sono tutele in costanza del rapporto di lavoro). L’aspirazione è quella di rendere le prestazioni di disoccupazione il cardine del sistema di mantenimento del reddito in caso di non lavoro, così come è in altri sistemi continentali che pure utilizzano strumenti simili alla cassa integrazione (come la Kurzarbeit tedesca).
L’articolo 22 del progetto di riforma istituisce presso l’INPS, a decorrere dal 1° gennaio 2013, l’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASpI). L’ambito di applicazione della nuova forma di sostegno viene esteso agli apprendisti e ai soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito, in ragione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata.
I requisiti di eleggibilità dell’ASPI non cambiano rispetto alla vecchia indennità ordinaria di disoccupazione, ma migliorano la generosità e la durata. La durata massima dell’AspI è di 12 mesi tranne che per i lavoratori di età pari o superiore ai 55 anni per i quali si può arrivare a 18 mesi. Questa estensione della durata per i lavoratori anziani è quanto più necessaria in quanto viene contestualmente eliminata l’indennità di mobilità che spesso accompagnava i lavoratori anziani fino alla pensione. Da questo punto di vista 18 mesi sono anche pochi, in quanto è sicuramente condivisibile fare dei sussidi di disoccupazione lo strumento principale di aiuto al reddito nei casi di perdita del lavoro, bisogna anche ricordare però che in Italia a differenza di molti altri paesi, all’esaurirsi del sussidio di disoccupazione non esiste un sussidio di povertà per chi non è riuscito a trovare una nuova occupazione.
Poiché i requisiti contributivi e assicurativi per l’accesso ai sussidi non sono cambiati, molti atipici (lavoratori a termine e in somministrazione, oltre ai part-time) continuano ad essere esclusi dall’AspI, per questi ultimi, però, c’è una novità nella mini-AspI.
La mini-ASpI viene pagata per una durata massima pari alla metà delle settimane contribuite nei 12 mesi precedenti la disoccupazione, e prevede una prestazione di entità pari all’AspI, per un massimo di 6 mesi (in presenza di una contribuzione di 52 settimane nell’ultimo anno). Per accedervi il disoccupato deve aver contribuito per almeno 13 settimane nei 12 mesi precedenti la disoccupazione, tuttavia non esiste un requisito assicurativo, cioè non è richiesto che il disoccupato abbia lavorato per un certo periodo di tempo prima della disoccupazione. Questo amplia notevolmente la platea di quanti hanno accesso effettivo alle indennità di disoccupazione, principalmente fra gli atipici. L’ampliamento della platea di lavoratori coperti da un sussidio di disoccupazione è, insieme al riordino della CIG con l’abolizione dell’indennità di mobilità, la maggiore novità della riforma per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali.
Con l’avvento della crisi la legge n. 2/ 2009 ha esteso in deroga la fruizione di cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) e indennità di mobilità. Questo provvedimento, pur reso necessario dall’urgenza della crisi, ha reso ancor più evidenti i limiti della CIG italiana: il nostro sistema di ammortizzatori sociali è “balcanizzato” ed è difficilmente compatibile con la disciplina comunitaria degli aiuti di stato in quanto limita il suo ambito di applicazione ad alcuni settori e alle imprese in possesso di determinati requisiti dimensionali e attribuisce all’autorità amministrativa ampi margini di discrezionalità nella concessione del trattamento alle imprese. Inoltre c’è l’ovvio problema che chi oggi riceve la cassa in deroga non ha mai versato i relativi contributi.
Da questo punto di vista è condivisibile l’intento della riforma Fornero di omogeneizzare i trattamenti disponibili tra imprese diverse estendendo la cassa integrazione (e i relativi obblighi contributivi) a tutte le imprese su base volontaria, e su base obbligatoria per quelle con più di 15 dipendenti attraverso fondi di solidarietà bilaterali.³ Altrettanto giusto eliminare dalla CIGS la causale di procedura concorsuale con cessazione di attività (abolita a partire dal 2016) e l’indennità di mobilità: si volta pagina rispetto a decenni di uso distorto della Cassa integrazione guadagni nelle crisi occupazionali aziendali.
Una novità da segnalare è che l’estensione della CIG e CIGS ai lavoratori dei settori non coperti non avviene direttamente in capo all’INPS ma attraverso fondi di solidarietà bilaterali costituiti nell’ambito di accordi e contratti collettivi (e in via suppletiva per via di un decreto). L’istituzione dei fondi è obbligatoria per tutti i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale per le imprese che occupano mediamente più di 15 dipendenti.
Infine la riforma ha ben presente la tradizionale debolezza italiana nelle politiche attive e dei servizi per la ricollocazione dei disoccupati e (meritoriamente) prevede l’istituzione presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali di un sistema permanente di monitoraggio e valutazione.
Conclusioni:
Al di là delle critiche che si possono muovere ai singoli punti, fa premio l’equilibrio complessivo della riforma. I quattro pilastri della riforma sono strettamente legati e vanno considerati in un equilibrio generale: ad un indebolimento della protezione dell’articolo 18 corrisponde un serio tentativo di evitare gli abusi troppo frequenti nell’utilizzo del lavoro autonomo. Per la prima volta finalmente si istituisce un’unica assicurazione contro la disoccupazione uguale per tutti i lavoratori dipendenti e si riconduce la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria: quella di tenere i lavoratori legati all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, non quella di sostenere con il denaro pubblico imprese senza nessuna prospettiva.
In conclusione i contenuti della riforma sono apprezzabili e vanno portati avanti senza tentennamenti. Tuttavia il successo della riforma si misurerà anche su quanto la volontà del legislatore, in termini di norme di licenziamento e di riassorbimento del lavoro precario, si trasformerà in pratica giurisprudenziale. A questo proposito è importante che il linguaggio della legislazione sia chiaro e il ricorso ai giudici non eccessivo. Su questi due ultimi punti rimangono della riserve che speriamo verranno corrette in seguito.
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NOTE
(1) L’apprendistato è un contratto speciale a causa mista (formazione e lavoro) utilizzato non solo per i giovani che abbandonano gli studi ma anche per l’inserimento al lavoro operaio e impiegatizio di lavoratori fino ai 34 anni. Gli sgravi contributivi sono costosi per la finanza pubblica (2.3 miliardi di euro nel 2010) e sono accompagnati da altri incentivi normativi, contrattuali e fiscali. Nel periodo di apprendistato l’accreditamento dei contributi per il lavoratore (contribuzione del 5.84% del salario) è pieno e se il rapporto di lavoro viene stabilizzato il diritto agli sgravi prosegue per ulteriori 12 mesi.
(2) M. Leonardi e G. Pica, “Who Pays for It? The Heterogeneous Wage Effects of Employment Protection Legislation”, IZA Discussion Paper No. 5335, 2010.
(3) A sfavore della scelta di estendere la CIG attraverso la costituzione di enti bilaterali invece che direttamente presso l’INPS c’è la consuetudine di lottizzazione degli stessi e il fatto che settori economicamente deboli avranno fondi poco generosi, a favore c’è la responsabilizzazione delle aziende e dei sindacati del settore. L’articolo 45 detta la disciplina finanziaria dei fondi, prevedendo in particolare: l’obbligo di bilancio in pareggio e la impossibilità di erogare prestazioni in carenza di disponibilità finanziarie.
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