LA SCELTA DI APPLICARE FIN DA SUBITO LA NUOVA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI A TUTTI I LAVORATORI, COMPRESI I VECCHI DIPENDENTI REGOLARI A TEMPO INDETERMINATO, HA INEVITABILMENTE PRODOTTO UNA RIDUZIONE DELL’INCISIVITÀ DEI CONTENUTI DELLA RIFORMA RISPETTO AL DISEGNO PIÙ AMBIZIOSO INIZIALE
Articolo di Enrico Morando, pubblicato su l’Unità il 11 aprile 2012
Per la riforma del mercato del lavoro, Monti si era dato due obiettivi ed un metodo, nel suo discorso programmatico. Primo obiettivo: ridurre drasticamente il dualismo interno al mondo del lavoro, così forte e violento da far motivatamente parlare di apartheid per i più giovani e i meno professionalizzati. Secondo obiettivo: rendere universali le coperture assicurate dal sistema degli ammortizzatori sociali, oggi caratterizzati da enormi disparità categoriali, tanto da costringere ad un loro sistematico utilizzo “in deroga” alle regole fissate dalla legge. Il metodo: operare in partenza una distinzione tra i lavoratori che hanno già oggi un contratto a tempo indeterminato – e possono quindi contare su di un complesso di tutele non eccellente, ma decente – che avrebbero potuto tendenzialmente mantenere il sistema attuale delle regole e delle tutele, e i lavoratori assunti dal momento dell’approvazione della riforma – compresi i milioni oggi titolari di contratti a tempo determinato o in collaborazione – , per i quali il sistema delle regole e delle tutele avrebbe dovuto essere radicalmente rinnovato.
Poiché allora il discorso programmatico di Monti venne universalmente apprezzato, sembra ragionevole assumerlo a metro di paragone per giudicare il disegno di legge che ora il Governo ha presentato alle Camere, dopo una lunga (e coralmente richiesta) fase di confronto e consultazione sia con le parti sociali, sia con i partiti che compongono la sua “strana” maggioranza.
È facile vedere che il disegno di legge, una volta attuato (dopo l’estate del 2013, quindi, soprattutto a causa del rinvio di un anno della trasformazione “forzata” in co-co-pro delle partite IVA finte) riduce il dualismo del mondo del lavoro: la riforma punta esplicitamente a trasferire la maggior parte possibile di nuove assunzioni e di contratti “precari” verso l’apprendistato, per poi farle sfociare nel rapporto di lavoro “prevalente”, il contratto a tempo indeterminato. Lo si capisce bene anche esaminando la Relazione Tecnica sulla copertura finanziaria del disegno di legge, che prevede nel tempo una crescita della stima del monte retributivo degli apprendisti e una riduzione del gettito della addizionale (+ 1,4%) sui contratti a termine. Naturalmente, solo l’esperienza dirà se son rose… Per ora, sappiamo che possono esserlo.
Anche il secondo obiettivo – ammortizzatori sociali di tipo universale – è perseguito con determinazione e in buona misura conseguito: l’Assicurazione Sociale Per l’Impiego (ASPI) fornirà un’indennità mensile di disoccupazione più elevata e ad una platea più ampia di quella assicurata dagli attuali istituti. Anche in questo caso, la transizione non sarà breve e resterà debole il sostegno al reddito dei lavoratori parasubordinati che abbiano perso il lavoro. C’è tuttavia il tempo per mettere rimedio a questi limiti.
E il passo in avanti – testimoniato dai numeri della Relazione Tecnica – è rilevante: nel 2013, per l’ASPI, si prevede di spendere 2,7 miliardi – aggiuntivi rispetto a quelli dedicati allo scopo dal Bilancio a legislazione vigente – compresi i 569 milioni necessari per finanziare la contribuzione figurativa. Né mancano aspetti qualitativi particolarmente apprezzabili, come quello che consente un forte sgravio contributivo per chi assume donne disoccupate nel Mezzogiorno.
Ora la parola spetta al Parlamento, che potrà e dovrà apportare ulteriori correzioni, senza lesionare le architravi della proposta del Governo. Anche se lo volesse – e penso che la maggioranza non lo voglia affatto – il Parlamento non potrebbe però mettere rimedio ad un errore di metodo che, a mio giudizio, sta alla base dei limiti della riforma: quella mancata distinzione, in partenza, tra i lavoratori con contratti a tempo indeterminato in essere e gli altri, nuovi o attualmente precari, di cui aveva parlato Monti. È stata la stesso Ministro Fornero, nella conferenza stampa finale, a chiarire il senso di questa scelta, compiuta sotto la pressione di larghissima parte delle forze sociali e politiche: la distinzione avrebbe conservato o addirittura incrementato il dualismo interno al mondo del lavoro.
Capisco, ma non condivido. È vero infatti che mantenere le regole attuali per i lavoratori che già godono delle tutele previste dalla legislazione vigente (compreso l’art. 18) e ridisegnare un sistema completamente nuovo per i nuovi lavoratori avrebbe avuto l’effetto di conservare, anche per il futuro prossimo, un elevato livello di dualismo. Ma si sarebbe trattato di un dualismo di segno opposto rispetto all’attuale: non più quello tra tutelati e non tutelati, ma tra due diversi sistemi di regole e tutele. Il primo, in via di lento e progressivo superamento, organizzato sui caratteri del sistema produttivo di cinquanta anni fa; il secondo, organizzato sul sistema produttivo della società e dell’economia della conoscenza. Entrambi fermissimi nel divieto assoluto, sanzionato col reintegro stabilito dal giudice, di ogni forma di licenziamento discriminatorio (del resto, l’art. 18 sta nel titolo secondo dello Statuto, dedicato alla “libertà sindacale”). Ma molto diversi per l’efficacia con cui favoriscono l’ingresso al lavoro, la rapida stabilizzazione del rapporto, le regole della sua rescissione per ragioni economiche, il sistema di sostegno del reddito durante la disoccupazione, la ricerca di un nuovo posto di lavoro. Non è certo per caso che il progetto Ichino – ispirato all’obiettivo di unificare il mondo del lavoro, attorno al contratto unico a tutele crescenti – opera preliminarmente la scelta di non incidere sul sistema delle regole vigenti – compreso l’art. 18 – per chi ha già oggi un contratto a tempo indeterminato. In questo modo, infatti, da un lato si offre ai giovani – che un vero e stabile contratto rischiano di non averlo mai – la concreta possibilità di raggiungere questo obiettivo, rendendo le imprese più propense a creare nuovi posti di lavoro stabili; dall’altro, anche tendendo conto della recessione in atto, si scoraggia la distruzione di posti stabili esistenti, mantenendo alta la protezione per chi è già “dentro”.
Io penso che – una volta fatta la scelta di non procedere sulla strada della distinzione tra insider e outsider – il Governo abbia imboccato l’unica strada che poteva condurre il confronto-trattativa con le parti sociali e i partiti ad un buon esito. A quello migliore, i primi e i secondi, compreso il Pd, avevano rinunciato in partenza. E non per responsabilità di Monti e del suo Governo.
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