GLI ARGOMENTI PRO E CONTRO LA SPERIMENTAZIONE IN ITALIA DEL MODELLO INGLESE, CHE PREVEDE IL FINANZIAMENTO DEGLI AUMENTI DELLE TASSE UNIVERSITARIE MEDIANTE MUTUI GARANTITI DALLO STATO AGLI STUDENTI, LA CUI RESTITUZIONE SARÀ DOVUTA SOLO DOPO IL SUPERAMENTO DI UNA SOGLIA DI REDDITO
Gli interventi di Francesco Sylos Labini e di Andrea Ichino, il primo già on line sul sito Scienzainrete dal 15 giugno 2011 (ivi anche alcuni altri interventi precedenti sullo stesso tema), mentre del secondo si prevede la pubblicazione on line sullo stesso sito il 20 giugno – In proposito v. anche l’interrogazione ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione presentata il 18 maggio scorso e un primo dibattito che ne era seguito, con interventi di Francesca Coin, di Roberto Ciccarelli e dello stesso Andrea Ichino, sul Manifesto e sul Fatto Quotidiano all’inizio di giugno
L’INTERVENTO DEI FRANCESCO SYLOS LABINI
Visto l’interesse che ha suscitato il tema, vorrei chiarire alcuni punti rispetto a quanto affermato nell’articolo di Andrea Ichino scritto in replica al mio precedente intervento sul tema delle tasse universitarie.
- Il debito pubblico italiano è di quasi 2000 miliardi di euro, l’evasione fiscale è stimata essere di circa 300 miliardi di euro ed il finanziamento all’università, è di circa 7 miliardi di euro. Dunque, il “risparmio” sulla spesa per università e ricerca inciderebbe per una frazione irrilevante sul debito pubblico: mi sembra ovvio che non si parte da qui per risanare le finanze del paese. Il problema, casomai, è cercare di rendere questa spesa più efficiente, oltre che di portarla al livello degli altri paesi europei. La decisione di incrementare la spesa per l’università e la ricerca, o di migliorare la sua qualità, è puramente politica ed ha davvero poco a che fare con il fatto che vi sia un debito pubblico 200 volte più grande. E’ infatti chiaro che i capitoli di spesa su cui incidere potrebbero essere altri soprattutto se s’iniziasse a considerare la spesa per l’università e la ricerca come un investimento per le future generazione, e non come una inutile fonte di spreco di risorse.
- Come è noto a qualsiasi studente, e come risulta dal regolamento di qualsiasi università, le tasse universitarie sono proporzionali al reddito (con una saturazione per i redditi più alti): non si capisce perché questo fatto debba essere necessariamente ignorato nell’argomento e nel modello presentati da Ichino. Per fare qualche esempio all’università di Torino ci sono 26 fasce contributive con importi che vanno da 300 a 1500 euro, mentre all’università di Cagliari ci sono 17 fasce contributive con tasse annuali da 180 a 2500 euro. Invece di presentare modelli fondati su ipotesi irrealistiche e numeri inventati, tra l’altro con risultati piuttosto confusi, bisognerebbe analizzare la realtà.
- C’è un fatto dato per scontato da Ichino ma che scontato non è. Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri? Per fare un esempio i laureati del consorzio Alma Laurea (che comprende la maggioranza delle università ed anche la maggioranza dei laureati – 110.000 su 180.000 lauree triennali) “acquisiscono con la laurea un titolo che entra per la prima volta nella famiglia d’origine”. Assumendo che la ricchezza delle famiglie sia proporzionale al grado d’istruzione (anche questa ipotesi da verificare, soprattutto in Italia ed alla luce dell’evasione fiscale) questo dato mostra che non è affatto ovvio affermare che la maggioranza di chi frequenta l’università è ricco (3 ricchi contro 1 povero nell’esempio di Ichino).
- Prendo atto che Ichino riconosce che l’università italiana non è gratuita e dunque smentisce quanto scritto nel suo precedente articolo. La rilevanza di affermare che l’università sia gratuita e di scarsa qualità sta proprio nel fornire una base ideologica alla proposta di introdurre un sistema che cambi radicalmente la dinamica del finanziamento, dell’accesso e dell’indipendenza dell’istituzione universitaria: un sistema che funziona abbastanza bene ma che ha criticità diffuse si deve e si può riformare, un sistema completamente corrotto e inefficiente va rifondato dalle fondamenta.
- Come paragone internazionale possiamo considerare, ad esempio, la Francia, dove: le tasse universitarie sono minori che in Italia, la percentuale di studenti che usufruiscono di borse di studio è più alta, il diritto allo studio è tutelato grazie anche ad un serio impegno in infrastrutture. Dove, inoltre, l’investimento in università e ricerca è maggiore che in Italia: non si capisce perché nel considerare i confronti internazionali si debba tacere sempre che la spesa nell’istruzione terziaria in Italia è tra le più basse dei paesi OCSE. O forse si assume che abbia ragione Roberto Perotti quando afferma, normalizzando in maniera arbitraria i dati OCSE, che “la spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16,027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa Svizzera e Svezia” ?
- Circa la qualità dell’università italiana, di nuovo la denigrazione continua fatta da Ichino e dai suoi colleghi non ha certo giovato ad una serena discussione su come sia possibile migliorare l’esistente. Come illustrato nel libro che ho scritto con Stefano Zapperi e in un altro contributo l’uso dell’impact factor per la classificazione in qualità dei paesi, come fatto nell’articolo con citato da Ichino, è del tutto arbitrario e non giustificato. L’H-index è una misura più significativa dell’impatto. Il suo valore globale, o diviso per settori, mostra che l’Italia si colloca settima al mondo. Per capire l’efficienza del sistema è necessario normalizzare questo dato rispetto alle risorse investite nel sistema universitario e della ricerca: da ciò risulta che il sistema italiano è anche ragionevolmente efficiente. Data però l’inefficienza di una parte del sistema, che nessuno mette in dubbio, la caratteristica principale del sistema universitario e della ricerca italiane è la sua eterogeneità. La qualità di tanti gruppi di ricerca italiana, in cui sicuramente molti ricercatori stranieri ambirebbero ad entrare, è testimoniata anche dal fatto che tanti giovani studenti che vanno all’estero riescono ad ottenere posizioni permanenti o borse di studio prestigiose come quelle erogate dall’European Research Council.
- Per quanto riguarda l’assenza di ricercatori stranieri in Italia, le cause sono molteplici e non è questa la sede per approfondire la questione. Consiglio però di provare a leggere un bando di un concorso, per esempio, del CNR e di confrontarlo con un del CNRS francese, o fare un semplice schema per comprendere quando sono banditi i concorsi in Italia o in Francia (in fase con la rotazione della Terra) e quando sono assegnati i posti, o considerare quanto guadagna un ricercatore appena assunto. Un semplice paragone può mostrare le problematicità del sistema italiano, ed il motivo per cui un gran numero di ricercatori italiani sta emigrando in Francia da qualche anno a questa parte. La differenza salariale è solo una parte del problema.
- Per quanto riguarda la Bocconi, il mio riferimento era alle classifiche internazionali generaliste, che d’altronde sono quelle sempre citate quando si discute del cattivo posizionamento delle università italiane. Se invece si considerano le classiche scorporate per campi disciplinari si trovano delle sorprese, ed il caso più eclatante è sicuramente la ventesima posizione della facoltà di scienze dell’università Sapienza di Roma. D’altro canto la Bocconi si posiziona, nella categoria scienze sociali ed economiche, a metà classifica delle prime cento ma a poca distanza dalla facoltà di economia dell’università di Bologna (a volte anche dietro di questa): non solo per produzione scientifica ma anche per gli altri parametri che le diverse classifiche usano per misurare la qualità. Se si misura la qualità in base al ranking in queste classifiche, sorge un dubbio: perché pagare dieci volte le tasse universitarie per andare alla Bocconi anziché all’università di Bologna?
- La proposta di Ichino non “consiste affatto nel far pagare l’università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri”. Quello che succederebbe è di escludere i ceti meno abbienti dall’istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale e condizionare anche la scelta del corso di studi. Come ho già illustrato, la Costituzione prevede un meccanismo chiaro ed efficace (se lo si adopera bene) per fare pagare ai ricchi i servizi pubblici in modo differenziale: la progressività dell’imposizione. Inoltre: (a) per chi è già ricco, pagare l’università ha un impatto relativamente poco rilevante sul reddito e lo può fare senza indebitarsi. Chi è povero, se riesce ad usufruire dell’ascensore sociale, deve pagare interamente (anche se in modo differito) la sua ascesa. Rapportato al reddito (suo e/o della sua famiglia) nel corso della vita l’impatto percentuale è più alto per un meno abbiente che per un più abbiente. Insomma, rimanere o arrivare in fascia alta costa uguale per tutti: peccato però che per chi è già in fascia alta, questo costo sia meglio sopportabile. (b) Ammesso che l’ascensore sociale funzioni, chi è povero deve valutare se gli conviene al netto della restituzione del debito. Potrebbe essere meglio un uovo oggi (lavorare dopo la maturità) piuttosto che una gallina domani (laurea e successiva restituzione del debito). Nel complesso, un disincentivo a conseguire titoli di studio che si ripagano troppo. (c) Rendere più aleatorio il finanziamento di un servizio pubblico è il primo passo per smantellarlo. In particolare, verrebbero messe a rischio le università nelle regioni economicamente svantaggiate dove bisognerebbe invece favorire la crescita del capitale umano. (d) Ci sono ottime ragioni perché scienza e cultura siano libere. Su temi legislativi, etici, nucleare, OGM, salute, effetti delle nuove tecnologie su salute e società, ecc., è bene che ci siano ricercatori liberi. Se prevale l’aspetto economico, i finanziamenti d’aziende energetiche, alimentari, farmaceutiche condizionerebbero in modo pesante la libertà d’insegnamento e d’opinione.
- Inoltre, come ha ben messo in luce Alessandro Figà Talamanca “Se per l’istruzione si deve, prima o poi, pagare, è naturale che vengano incentivate le scelte che offrono maggiori prospettive di guadagni futuri. Se gli studi universitari sono considerati alla stregua di un investimento personale, l’accorto investitore-studente sceglierà quelli potenzialmente più remunerativi. E’ proprio questo che vogliamo? Un tale effetto può essere ritenuto positivo solo da chi ritiene che il valore sociale di un’attività lavorativa sia misurato dal reddito che se ne ricava. In altre parole da chi ritiene che la differenza di reddito tra un consulente finanziario e un maestro elementare misuri la differenza del valore sociale attribuibile alle loro attività. Ma questa non è tanto o solo una posizione decisamente di destra: è piuttosto una posizione ideologica che ignora la realtà. Ignora, ad esempio, che per la professione di maestro elementare, o di fisico teorico, siamo ben lontani da condizioni ‘di mercato’.”
- Infine vorrei far notare che qualche giorno fa, proprio in relazione con le politiche del governo inglese che si vorrebbero adottare in Italia, una risoluzione dell’università di Oxford, votata da 283 professori (5 i contrari), afferma che “l’Università di Oxford non ha alcuna fiducia nelle politiche del Ministro per l’istruzione superiore”.
L’INTERVENTO DI ANDREA ICHINO
Tra le affermazioni di Francesco Sylos Labini nel suo ultimo intervento, la più sorprendente è quella in cui mi domanda “Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri?” Questa sua domanda richiede una risposta, in attesa che altri vogliano intervenire in questo dibattito per non limitarlo ad uno sterile scambio bilaterale.
“Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri?”
Deve esserci un equivoco perché la mole di ricerche internazionali che mostrano l’impatto del background familiare sulle scelte d’istruzione è enorme e generalmente ben nota. Il dato Almalaurea citato da Francesco mi induce a pensare che lui confonda la distribuzione della ricchezza familiare tra gli iscritti all’università, con la probabilità di iscriversi all’università data una certa ricchezza familiare: questi due concetti statistici sono in relazione tra loro (Teorema di Bayes), ma solo il secondo è quello rilevante ai nostri fini.
Visto che Francesco mi accusa di usare esempi “confusi” e con numeri inventati, provo ad usare un minimo di notazione matematica abbinata alla spiegazione intuitiva e a dati reali (chi non è interessato ai simboli può comunque seguire le parole).
Innanzitutto assumiamo, seguendo Francesco, che “la ricchezza delle famiglie sia proporzionale al grado d’istruzione” e quindi che la laurea dei genitori sia un indicatore (binario) di maggiore ricchezza della famiglia d’origine. Ha ragione Francesco a dire che in linea di principio è una ipotesi da verificare, ma almeno in prima approssimazione è un ipotesi ragionevole e largamente supportata nella letteratura.[1]
Definiamo quindi con:
- L=1: figlio laureato
- L=0: figlio non laureato
- Y=1: genitori laureati e quindi “famiglia ricca”
- Y=0: genitori non laureati e quindi “famiglia povera”
I dati Almalaurea dicono che tra i figli che si laureano la frequenza di genitori non laureati (“povertà”) è maggiore della frequenza di genitori laureati (“ricchezza”). Ossia:
72% = Pr(Y=0|L=1) > Pr(Y=1|L=1) = 28% (1)
Francesco conclude quindi che tra i laureati italiani ci sono più poveri che ricchi e per questo la mia affermazione è falsa. Dimentica però di guardare a come la ricchezza familiare è distribuita nel gruppo dei figli che non si laureano (L=0). Questa informazione non è contenuta nei dati Almalaurea che si riferiscono evidentemente ai soli laureati. Supponiamo ad esempio che accada questo (ed è la realtà del caso italiano[2]):
93% = Pr(Y=0|L=0) >> Pr(Y=1|L=0) = 7% (2)
ossia che tra i non laureati la frequenza di “famiglie povere” sia addirittura pari al 93% e quindi molto maggiore che tra i laureati (72%). Quindi le “famiglie relativamente povere” (secondo questa definizione) sono tante in generale e sono relativamente più frequenti tra coloro che non si laureano. L’immagine che ora si trae dai due dati congiunti (1) e (2) comincia ad apparire diversa da quella che Francesco vuole far trasparire usando solo il primo. I due risultati sono infatti possibili solo se la probabilità di laurearsi di un figlio, condizionatamente alla ricchezza del padre, è inferiore quando il padre è povero. Ossia il confronto statistico che deve interessare è quello tra:
Pr(L=1|Y=0) e Pr(L=1|Y=1) (3)
In altre parole dobbiamo chiederci se la probabilità di laurearsi del figlio di un povero sia maggiore o minore della probabilità di laurearsi del figlio di un ricco.[3]
Vediamo allora i dati rilevanti per questo confronto, iniziando da quelli per Italia e USA che ho analizzato con Daniele Checchi e Aldo Rustichini[4]: l’evidenza dice, ad esempio, che ” … the odds of obtaining a college degree in Italy are almost 25 times higher if the father has a college degree, while in the US having a graduate father increases the odds only by 6 times. Hence, both countries do not ensure a situation of equal opportunities in the transitions between education levels, but Italy appears to be more distant than the US from such a situation.”[5] Incidentalmente, l’articolo mostra anche che la mobilità sociale è maggiore in USA (fatto, immagino, sorprendentemente per Francesco), dove il sistema scolastico è largamente privato e andare all’università costa molto.
Ma forse Francesco non si fida dei miei conti e delle leggi della statistica. Può allora scaricarsi direttamente i dati dell’Indagine della Banca d’Italia sui Bilanci delle Famiglie Italiane (http://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait), che è un’indagine campionaria rappresentativa, mentre tra l’altro i dati Almalurea soffrono di un tasso di non risposta probabilmente maggiore tra i laureati con carriere professionali migliori e quindi distorsivo per le analisi rilevanti in questa sede.
Con questi dati potrà verificare autonomamente che, ad esempio, i contribuenti con reddito (lordo) entro i 40000 euro (che possiamo considerare relativamente “poveri”) sono circa il 90% del totale dei contribuenti, ma sono solo il 25% di coloro che hanno figli all’università. L’ipotesi del mio esempio numerico incautamente ridicolizzata da Francesco (su 4 studenti universitari uno povero) non è troppo lontana da questi numeri, tenendo conto anche della ovvia necessità di semplificazione di un esempio.
Più recentemente, il già citato articolo di Checchi, Fiorio e Leonardi, usando i dati Banca d’Italia, conclude che “… there is still a persistent difference in the odds of attaining a college degree between children of college educated parents and children of parents with lower secondary educational attainment.”
Infine, e tralasciando di citare l’analoga evidenza internazionale, Francesco può anche consultare i numerosi libri di Antonio Schizzerotto, (ad esempio, Sociologia dell’Istruzione, Il Mulino 2006, con Carlo Barone).
Francesco Sylos Labini mi dice che “Invece di presentare modelli fondati su ipotesi irrealistiche e numeri inventati, tra l’altro con risultati piuttosto confusi, bisognerebbe analizzare la realtà.” Lascio al lettore giudicare chi sia più vicino alla realtà
“Progressività della fiscalità generale e regressività del finanziamento universitario”
Assumendo che ora possiamo tutti finalmente concordare sul fatto che, a meno di ingegnose definizioni di povertà e ricchezza relative, i “poveri” usufruiscono dell’educazione terziaria relativamente meno dei “ricchi”, la seconda questione su cui Francesco Sylos Labini mi invita ancora a fornire spiegazioni è la questione di chi finanzia gli studenti universitari. Anche in questo caso, se gli esempi simulati non bastano, provo a rispondere con i numeri dell’indagine Banca d’Italia e con i dati del Ministero delle Finanze:[6]
- Il 25% più povero delle famiglie che hanno almeno un figlio all’università ha un reddito (lordo) inferiore o uguale a 40000 euro; il secondo 25% ha un reddito compreso tra 40000 e 65000 euro; il terzo 25% tra 65000 e 97000; l’ultimo 25% superiore a 97000 (i dati vengono dall’indagine Banca d’Italia del 2008).
- Guardando ora ai dati del Dipartimento delle Finanze per lo stesso anno, i contribuenti con reddito entro i 40000 euro pagano il 54% del gettito IRPEF netto; quelli con reddito tra 40000 e 65000 ne pagano il 16%; quelli con reddito tra 65000 e 97000 ne pagano il 12%; quelli con reddito superiore a 97000 ne pagano il restante 18%
Quindi[7]:
- le famiglie più povere con figli all’università (ossia quelle con reddito inferiore ai 40000 euro) usufruiscono del 25% dei 7 miliardi del Fondo di Finanziamento Ordinario (circa 1,75 miliardi) ma li finanziano per il 54% (circa 3.8 miliardi): trasferiscono quindi implicitamente 2 miliardi alle famiglie con reddito superiore ai 40000 euro.
- il successivo 25% delle famiglie (quelle con redditi tra 40000 e 65000), riceve un altro 25% del FFO e lo paga per il 16%: ne ricavano un trasferimento netto a loro favore pari a circa 600 milioni; il successivo 25% riceve poco meno di un miliardo, e l’ultimo 25% riceve circa mezzo miliardo.
- Ovviamente il finanziamento del FFO viene anche da altre imposte, che qui non si considerano. Ma a meno che queste non siano più progressive dell’imposta sui redditi (e non lo sono), l’argomento risulta semmai rafforzato.
Spero dunque che anche su questo punto si possa finalmente archiviare la questione. Ossia è comunque vero (e quasi lapalissiano) che se aggiungiamo una componente regressiva in qualsiasi sistema fiscale, riduciamo la progressività pre-esistente di quel sistema fiscale, quale che essa sia. Se la progressività preesistente è quella considerata equa dalla Costituzione, vuol dire che è quella che rende a ciascuno il suo. Il modo in cui in Italia finanziamo l’università (e lo stesso vale per i numerosi altri paesi che fanno altrettanto) implica togliere ai poveri ciò che la progressività voluta dalla Costituzione vorrebbe che loro legittimamente avessero.
“Debito pubblico ed evasione fiscale”
Su questo punto esiste un’evidente e legittima divergenza di posizioni tra Francesco e me, che non è possibile sanare in quanto non dipende da fatti ma dalle nostre rispettive preferenze. In altre parole, sia io che Francesco concordiamo sul ridurre le spese inutili della pubblica amministrazione (ad esempio gli aerei da caccia) e combattere seriamente l’evasione fiscale. Ma qui le strade si dividono. Io darò l’appoggio ai politici che vorranno utilizzare questi risparmi per ridurre lo stock di debito pubblico. Francesco a quelli che invece vorranno aumentare la spesa universitaria (contendendo i risparmi a sanità, giustizia, servizi sociali …). Vedremo che cosa diranno gli elettori.
In ogni caso Francesco Sylos Labini fa un’operazione scorretta confrontando variabili stock come il debito (2000 mld,) e variabili flusso come la spesa universitaria, (7 mld ).
“La proposta di Ichino non ‘consiste affatto nel far pagare l’università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri’.”
Se capisco bene quello che Francesco vuol dire, con la mia proposta il ricco avrebbe un vantaggio rispetto al povero perché il ricco non ha vincoli di liquidità, ha risorse in eccesso, non è costretto ad indebitarsi e il valore marginale del reddito è per lui inferiore. Per il povero è vero il contrario. Concordo pienamente, ma attenzione: il vantaggio per il ricco non deriva dalla mia proposta, ma dal fatto che è ricco in partenza. Ossia quale che sia l’intervento che preferiamo (borse, prestiti o finanziamenti a pioggia) rimane il fatto che il ricco non ne avrebbe bisogno. Proprio per ovviare a questo la mia proposta facilita i poveri consentendo la possibilità di:
- Alzare le tasse universitarie per i ricchi anche al di sopra del costo del servizio da loro utilizzato, realizzando così anche nell’ambito ristretto del finanziamento universitario la progressività voluta dalla Costituzione (come già spiegato sopra il finanziamento basato sulla fiscalità generale preferito da Francesco, riduce, invece, la progressività totale).
- Offrire prestiti che possono benissimo essere agevolati in misura fortemente maggiore per i meno abbienti; le borse di studio a fondo perduto sono la versione estrema di un prestito di questo tipo; ma i prestiti consentono una gamma di modulazioni molto più flessibile e generano meno sprechi.
- Offrire prestiti che devono essere ripagati solo in proporzione al reddito, e quindi non generano “l’ansia della rata fissa da pagare” a tutti i costi; la percentuale di restituzione può di nuovo essere modulata in modo da favorire anche fortemente i meno abbienti.
- Offrire prestiti che non devono essere ripagati sotto una soglia di reddito post laurea da stabilire, favorendo quindi la mobilità sociale in misura tanto maggiore quanto più alta è questa soglia.
L’effetto combinato di queste caratteristiche della proposta, può quindi implicare un forte trasferimento pubblico a favore dei meno abbienti per frequentare l’università. Farlo o non farlo dipende dalle preferenze della collettività: ma il mio strumento lo consente. Invito quindi Francesco e i lettori a distinguere tra il giudizio tecnico sullo strumento proposto e il giudizio su come può essere utilizzato nelle sue diverse modulazioni a seconda delle preferenze politiche della collettività.
Rimane ovviamente vero che le famiglie abbienti non hanno bisogno di prestiti perché sono ricche. Ma cosa c’entra questo con il giudizio sulla mia proposta? Il fatto che esistano ricchi e poveri dobbiamo prenderlo per dato, almeno nell’attuale situazione. Proprio partendo da questo dato di fatto, la mia proposta consentirebbe di favorire un maggiore accesso dei poveri all’istruzione terziaria rispetto alla situazione attuale e quindi di ridurre la disuguaglianza e incrementare la mobilità sociale.
“Altre questioni”
Le altre questioni toccate da Francesco sono in larga parte tangenziali rispetto alla mia proposta.
È vero: in Italia le tasse universitarie non sono zero, ma sono ridicolmente basse rispetto ai costi di erogazione del servizio. Dire che per questo in Italia si va all’università praticamente gratis mi sembra un’approssimazione non insensata. Però accetto la critica: un piccolo costo in termini di tasse universitarie c’è e avrei dovuto essere più preciso. D’altro canto Francesco ammetta che una differenziazione in fasce di reddito come quelle da lui citate (da 300 a 1500 ad esempio) implica un costo ridicolo per una famiglia abbiente. Continuo a non capire perché Francesco (e chi la pensa come lui) trovi accettabile che ad esempio un professore ordinario come me possa mandare i suoi figli all’università spendendo solo poco più di 2000 euro di tasse universitarie all’anno.
Inoltre la mia proposta tiene in considerazione il fatto che dobbiamo finanziare anche le spese di alloggio e trasferimento degli studenti: anche per queste spese potrebbe essere chiesto il prestito.
Infine, inutile discutere di qualità del sistema universitario, o specificamente della Bocconi: abbiamo opinioni diverse e usiamo unità di misura differenti. E poi entrambi i nostri interventi hanno confuso didattica e ricerca, valutazione generale e field specific.
Rimane invece il fatto che quale che sia il livello attuale dell’università italiana si possono migliorare le cose e a questo aspira la mia proposta.
A questo punto, ad altri la parola.
Andrea Ichino
andrea.ichino@unibo.it
[1] Vedi ad esempio, limitandosi solo all’evidenza italiana più recente: Checchi, Fiorio e Leonardi (2011), “Intergenerational persistence of educational attainment in Italy”, IZA Working Paper 3622, http://www.iza.org/en/webcontent/publications/papers/searchResults.
Mentre dati precisi sulla ricchezza sono meno diffusi e quindi la relazione tra istruzione e ricchezza è stata meno frequentemente stimata, la relazione tra istruzione e reddito da lavoro è forse la relazione maggiormente studiata da economisti e sociologi. Qualsiasi manuale di economia del lavoro riporta rassegne di studi per ogni paese del mondo che confermano una relazione positiva e statisticamente molto significativa: nei paesi avanzati, mediamente, un anno di istruzione è associato ad un aumento del reddito da lavoro pari a circa il 6-8% (vedi, ad esempio, Brucchi Luchino. “Manuale di Economia del Lavoro”, Il Mulino).
[2] Il dato non è inventato, ma è tratto da Checchi, Ichino e Rustichini (1999), “More equal but less mobile? Education financing and intergenerational mobility in Italy and in the US”, Journal of Public Economics, Tabella 8, pag. 360, http://www2.dse.unibo.it/ichino/dc-ai-ar%60%60moreequal-jpe.pdf)
[3] Il Teorema di Bayes mette in relazione questi concetti statistici nel modo seguente:
P(L=1|Y=0) = Pr(Y=0|L=1) Pr(L=1) / [ Pr(Y=0|L=1) Pr(L=1) + Pr(Y=0|L=0) Pr(L=0)] (5)
dove è evidente che per avere P(L=1|Y=0), ossia l’indicatore che ci interessa, a partire da Pr(Y=0|L=1), ossia quello che dicono i dati Almalaurea, servono due altre informazioni: Pr(L=1) e Pr(Y=0|L=0), fornite nel mio articolo con Checchi e Rustichini (e non solo).
Analogamente per la seconda probabilità condizionata:
P(L=1|Y=1) = Pr(Y=1|L=1) Pr(L=1) / [ Pr(Y=1|L=1)Pr(L=1) + Pr(Y=1|L=0) Pr(L=0)] (6)
[4] Vedi nota 2. Per essere ancora più precisi e depurare il confronto dalle variazioni delle distribuzioni marginali, la letteratura compara gli odds ratios, ossia i rischi relativi, definiti come:
Pr(L=1|Y=0)/ Pr(L=0|Y=0) e Pr(L=1|Y=1)/ Pr(L=0|Y=1) (7)
Questi rischi relativi sono gli indicatori menzionati nella citazione che segue tratta dall’articolo con Checchi e Rustichini.
[5] Si veda l’articolo per ulteriori analisi e risultati, in particolare sulla relazione positiva tra istruzione e reddito, che in questa sede giustifica la considerazione delle famiglie con genitori laureati come famiglie economicamente avvantaggiate.
[6] Ringrazio Daniele Terlizzese, con cui sto lavorando ad un rapporto esteso sulla nostra proposta di riforma del finanziamento universitario, per l’aiuto nel reperimento di questi numeri, e per la conversione da redditi netti a redditi lordi nei dati Banca d’Italia.
[7] Trascurando, in prima approssimazione, l’imprecisione derivante dalla combinazione di redditi familiari e individuali.