LA VALUTAZIONE NON SERVE TANTO A CAMBIARE CHI NELLA SCUOLA GIÀ OPERA: SERVE SOPRATTUTTO PER ATTIRARE IN ESSA PERSONE PIÙ PREPARATE E PER CONSENTIRE AGLI STUDENTI E ALLE LORO FAMIGLIE DI SCEGLIERE A RAGION VEDUTA
Fondo di Andrea Ichino, pubblicato su il Sole 24 ore il 28 febbraio 2011
Nel panorama un po’ deprimente della scuola italiana, ci sono ancora, qua e là, istituzioni certosine che, con pochissime risorse, riescono a far fare passi avanti al Paese. Una di queste è l’Invalsi, ossia l’ente pubblico a cui, tra vari compiti, è affidato quello di misurare in modo standardizzato quanto gli studenti italiani apprendono nelle scuole di ogni ordine e grado. In altri paesi misurazioni analoghe forniscono da tempo informazioni essenziali per poter confrontare studenti provenienti da classi diverse.
Quando l’Invalsi completerà il suo lavoro anche per le scuole superiori, le università avranno uno strumento in più per decidere meglio chi ammettere ai loro corsi di laurea (e analogamente le imprese per decidere chi assumere). Attualmente è impossibile confrontare i voti di maturità di scuole diverse. Proprio questi test (nella versione internazionale Ocse-Pisa) ci hanno fatto capire quanto sospetto sia il primato calabrese di promozioni e “100 con lode”, dato che, quando la prova è uguale per tutti e uniformemente valutata, gli studenti del sud risultano molto lontani dalla media europea. I veneti invece, che hanno ottimi risultati in questi test, conseguono voti inferiori nell’esame di maturità nostrano.
Più delicato è l’uso di queste misurazioni per valutare la performance di scuole e insegnanti. Non impensabile, però, tenendo conto che, qualora disponessimo di un’anagrafe della storia scolastica degli studenti e delle famiglie (come in altri paesi), sarebbe possibile distinguere ciò che nell’incremento degli apprendimenti dipende dal contesto sociale e ciò che dipende invece solo dalla scuola e dagli insegnanti. Questo non implicherebbe di per sé aver deciso quali performance siano da premiare: per esempio, quelle di chi si preoccupa solo degli studenti migliori o quelle che puntano a non lasciare nessuno indietro. Spetta al politico, come interprete dei desideri e necessità della collettività, stabilire che cosa valutare positivamente, ma è indubbio che senza misurazioni non potremo farlo mai. E nemmeno potremo aiutare le scuole in difficoltà perché non sapremo quali sono.
Il Paese ha incominciato a non prendere sotto gamba questi test (forse anche per questo siamo leggermente migliorati nel panorama internazionale) e ad apprezzare le informazioni che essi forniscono e che alcune scuole da qualche tempo rendono giustamente pubbliche.
Ma è ancora frequente (soprattutto tra gli insegnanti) un ostruzionismo fondato sull’idea che la bravura di uno studente e ancor più quella dei suoi docenti, non possano essere misurate dal numero di risposte giuste in un test a crocette. Forse è vero (ma provate a farli prima di giudicare). Comunque nessuno sostiene che questa debba essere l’unica informazione su cui basare la valutazione. Grazie alla sua oggettività, è probabile, però, che sia una informazione utile almeno tanto quanto misure qualitative di più ampia portata, ma necessariamente più opinabili.
Purtroppo tra questi Scilla e Cariddi stanno le sole alternative possibili. E diventa quindi un po’ sospetta l’opposizione a 360 gradi di chi critica i test standardizzati perché non possono cogliere la complessità del processo educativo, ma al tempo stesso rifiuta ogni forma di valutazione discrezionale perché, quale che sia il valutatore, non si fida della sua correttezza e imparzialità.
Le sperimentazioni ministeriali sulla valutazione, che gli insegnanti hanno platealmente rifiutato, puntavano, senza pregiudizi, a verificare nel concreto l’utilità delle informazioni fornite dai test standardizzati, da ispettori esterni, oppure dalla percezione dei “pari” e dell’utenza all’interno di ciascuna scuola riguardo alla reputazione e competenza dei singoli docenti. Il fuoco incrociato e pregiudiziale di chi ha obiezioni per tutto e per tutti, ha impedito di capire come ciascuna di queste soluzioni potrebbe funzionare. E anche quanto ciascuna di esse costerebbe, perché, per esempio, chi vorrebbe solo ispettori esterni “autorevoli” dovrebbe anche spiegare dove e come trovarli in misura sufficiente a valutare le migliaia di scuole italiane e l’ancor più numeroso personale che in esse opera.
Può darsi che ci siano scuole in cui qualsiasi tipo di valutazione, comunque fatta, risulterebbe inaffidabile e quindi per questo dovrebbe a buon diritto essere rifiutata dagli insegnanti. Ma non voglio pensare che debba essere così in tutte le scuole (altrimenti ci sarebbe da chiedersi se sia una buona idea affidare ad esse i nostri figli). Non possiamo bloccare il Paese pensando solo a dove le riforme non funzionano, e dimenticandoci di dove invece potrebbero farci iniziare un circolo virtuoso di miglioramento. È urgente iniziare a sperimentare le diverse soluzioni, perché ciò di cui la scuola italiana ha più bisogno è di attirare i migliori laureati. Oggi vanno altrove perché sanno che nella scuola nessuno riconosce i loro meriti. Finché continueremo a parlare senza dare segnali concreti di cambiamento, continueranno ad andare altrove. La valutazione non serve tanto a cambiare chi nella scuola già opera: serve soprattutto per attirare in essa persone più preparate.
Era ragionevole attendersi che su questioni così rilevanti un governo serio intervenisse con provvedimenti coerenti, semplici da capire e ben studiati nei dettagli. Parliamo di queste cose, invece, perché in modo confuso, tasselli importanti del sistema di valutazione sono finiti nel decreto milleproroghe: uno strumento di governo illeggibile ai profani e che nel suo stesso nome sancisce il fallimento di un’amministrazione, la quale – non da ora – ammette spudoratamente di essere inadempiente rispetto a quanto da essa stessa precedentemente stabilito. Non credo esistano molti altri Paesi in cui un tale malcostume legislativo assuma le stesse dimensioni.