FACCIA A FACCIA CAZZOLA/ICHINO SULLA POLITICA DEL LAVORO E INDUSTRIALE

LE CONVERGENZE E LE DIVERGENZE TRA DUE APPROCCI, DI MAGGIORANZA E DI OPPOSIZIONE, AI PROBLEMI DELLA CRESCITA, DELLE DISUGUAGLIANZE DI REDDITO CRESCENTI, DELL’OCCUPAZIONE E DISOCCUPAZIONE, DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI 

Interviste parallele a Pietro Ichino e Giuliano Cazzola (vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati), a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicate su Libero il 24 settembre 2010 

La produttività da rilanciare, le relazioni industriali da rimodellare, un nuovo patto sociale da scrivere. Su questi temi abbiamo messo a confronto Giuliano Cazzola, deputato PdL e vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera e il giuslavorista Pietro Ichino, senatore e membro della Direzione nazionale del Pd. Voci distinte ma non sempre distanti. Soprattutto, voci di chi ben conosce la materia di cui sta parlando…

 

La produttività italiana, che era superiore a quella della media europea all’inizio degli anni 90, declina rovinosamente nell’ultimo ventennio. Come si concilia questa dinamica con le ottime prestazioni delle nostre imprese sul fronte dell’export, dove abbiamo conquistato più quote di mercato con minori volumi prodotti, più valore aggiunto   e  più innovazione?

ICHINO: «I due dati sono agevolmente conciliabili tra loro, se si considera che le imprese impegnate sul fronte dell’export sono, sì, la punta di diamante della nostra industria manifatturiera, ma ne sono soltanto una piccola parte. La realtà è che non si può ragionare per grandi aggregati, come se il nostro tessuto produttivo avesse caratteristiche omogenee. E la consapevolezza della disomogeneità dovrebbe indurci a mettere in campo i servizi necessari per il trasferimento dei lavoratori, senza perdita economica o professionale per loro, dalle aziende meno produttive a quelle che lo sono di più. Proprio perché non sappiamo fare questo mestiere, invece, noi difendiamo con le unghie e coi denti le aziende meno produttive; ma in questo modo non difendiamo altrettanto bene l’interesse dei lavoratori che da esse dipendono».

CAZZOLA: «Le imprese esportatrici sono le più virtuose, perché è la concorrenza a stimolare la produttività. Sul mercato globale si compete sul piano dei prezzi e della qualità dei prodotti. Solo una maggiore qualità consente di mantenere più elevato il prezzo. Altrimenti è il prezzo a fare aggio sui costi di produzione, nel senso che i costi devono essere compatibili con il prezzo convenuto. Il fatto è che le imprese esportatrici sono meno del 20%, anche se detengono più dei due terzi del valore aggiunto».

Bonanni e Angeletti, su Libero, hanno chiesto   un nuovo patto sociale: meno tasse su lavoratori e imprese, stipendi più alti ma vincolati alla produttività. È  la strada da percorrere?

ICHINO: «Questa è sicuramente una delle misure da adottare. Ma la partita decisiva, a mio parere, si giocherà sul terreno della capacità del nostro Paese di aprirsi agli investimenti stranieri. Oggi, su questo terreno, l’Italia è il fanalino di coda in Europa: peggio di noi fa soltanto la Grecia. E recuperare terreno rispetto alla media dei Paesi europei vorrebbe dire per noi molti miliardi in più investiti in casa nostra ogni anno».

 

CAZZOLA: «Certamente. Non abbiamo le condizioni per una riduzione generalizzata della pressione fiscale. I percettori di redditi sicuri e di trasferimenti monetari sono quelli che meno hanno sofferto per gli effetti della crisi. Dobbiamo servirci di aliquote ridotte per incrementare la produttività concentrando i benefici fiscali sulle voci retributive che la stimolano e la favoriscono».

Ma diminuire le imposte sui salari   è possibile, ora che la priorità sembra essere la tenuta dei conti dello Stato?

ICHINO: «Dall’inizio di questa legislatura, la rinuncia all’Ici sulle case dei ricchi ci è costata più di 10 miliardi; e il rifiuto dell’offerta di Air France-Klm per Alitalia, con le misure necessarie per “difendere l’italianità” della Compagnia aerea, ci è costato complessivamente –  fra esborsi diretti, investimenti rifiutati e crediti non soddisfatti  –  circa 3 miliardi e mezzo. La risposta è sì: diminuire le imposte sui salari più bassi e le imprese senza indebolire il rigore di bilancio è possibile. Aggiungo che una drastica riduzione dell’imposta sui redditi di lavoro fino a 1000 euro al mese (sui quali oggi il Fisco preleva 110 euro!) è un atto di giustizia sociale elementare: 1000 euro al mese può considerarsi oggi, in Italia, una soglia di povertà».

 

CAZZOLA: «Ribadisco che non vedo praticabile una riduzione delle imposte come misura di carattere generale. Peraltro servirebbe a ben poco perché si darebbe un beneficio inadeguato ai singoli nonostante l’impiego di risorse consistenti. Bisogna essere il più selettivi possibile, tenendo conto anche dell’esigenza di sostenere l’occupazione, giovanile in particolare, mediante incentivi alle imprese».

 Oltre a collegare i salari alla produttività non si potrebbe   collegarli alla flessibilità? Non è giusto che,  senza  contratto a tempo indeterminato, il dipendente percepisca uno stipendio superiore?

ICHINO: «Questo principio è già contenuto nel nostro diritto del lavoro: la flessibilità nell’interesse del datore o del prestatore è una “qualità” del lavoro, di cui dovrebbe tenersi conto nella determinazione della retribuzione a norma dell’articolo 36 della Costituzione. E la legge ordinaria applica in modo specifico questo principio: per esempio in riferimento alle clausole di elasticità o flessibilità del part-time. Il problema è che oggi è molto agevole per il datore di lavoro scegliere di disapplicare in blocco l’intero diritto del lavoro, ingaggiando il lavoratore con partita Iva, anche se è sostanzialmente dipendente. Questo è il motivo per cui con il mio ddl n. 1873/2009 propongo una riforma radicale: per tutti i rapporti di lavoro che si costituiranno da oggi in poi, un diritto del lavoro meno rigido, ma suscettibile di applicarsi davvero a tutti coloro che lavorano in posizione di sostanziale dipendenza dall’impresa. Per superare il regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti».

CAZZOLA: «Posta così, come se fosse una ritorsione nei confronti delle imprese, la cosa non mi convince. Non si dimentichi mai che i rapporti flessibili sono esplosi in Europa quando, negli anni ’80, ci si è accorti che i giovani non entravano più nel mercato del lavoro. Oggi sono stati i giovani a pagare il prezzo più alto della crisi (nella fascia di età fino ai 34 anni i disoccupati sono aumentati di quasi il 6%). Crede forse che quando l’economia ripartirà non si troveranno delle forme meno onerose per le imprese allo scopo di facilitare delle nuove assunzioni di giovani?
Un altro discorso, a mio avviso più serio, potrebbe riguardare misure a sostegno del welfare. Per esempio si potrebbe portare a 7.000 euro annui (anzichè gli attuali 5.000) la quota di deducibilità fiscale dei contributi a forme di previdenza complementare dei lavoratori “flessibili” che non dispongono del Tfr e quindi non possono versarlo come i lavoratori dipendenti».

Capitolo formazione: dovrebbe essere il punto di forza di un welfare moderno, invece da noi viene spesso associata a spreco di denaro pubblico. Come si fa a ridurre l’autoreferenzialità dei corsi e a verificarne la qualità?

ICHINO: «Occorre un organismo regionale veramente indipendente, che rilevi per ciascun centro di formazione professionale il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi professionali effettivi. E bisogna collegare strettamente i finanziamenti pubblici a questo indice. Per la riqualificazione nei processi di mobilità interaziendale, poi, nel progetto “flexecurity” che ho presentato insieme ad altri 54 senatori del Pd si prevede che i servizi al lavoratore siano erogati tramite un’agenzia scelta dall’impresa stessa che licenzia, la quale deve anche finanziare un trattamento di disoccupazione di livello scandinavo, in cambio dell’esenzione dal controllo giudiziale sul motivo economico del licenziamento: in questo modo si incentiva la massima efficienza nella riqualificazione e ricollocazione del lavoratore».

 

CAZZOLA: «Il governo intende privilegiare la formazione che si svolge direttamente in azienda». 

Quando potremo conoscere l’ossatura del nuovo Statuto dei lavori annunciato dal ministro Sacconi e destinato a sostituire il “vecchio” Statuto dei lavoratori? Se davvero, come pare, Confindustria si accinge a presentare una proposta organica per riscrivere le relazioni industriali, non c’è il rischio che il nuovo Statuto arrivi tardi?

ICHINO: «Con i due disegni di legge, n. 1872 e 1873/2009, firmati da 55 senatori del Pd, abbiamo fatto di più: abbiamo proposto un nuovo Codice del lavoro semplificato in 70 articoli, suscettibile di applicazione davvero universale e traducibile in inglese. Il primo dei due ddl contiene in 12 articoli tutto il nuovo diritto sindacale, compresa la disciplina della contrattazione collettiva e della misurazione della rappresentatività dei sindacati, ma richiede una modifica dell’articolo 39 della Costituzione. Il secondo contiene in 58 articoli tutta la nuova disciplina del rapporto individuale di lavoro, con abrogazione di 200 leggi oggi in vigore».

CAZZOLA: «È un impegno confermato dal governo nel piano triennale del lavoro. Speriamo che la legislatura duri per il tempo necessario a varare questo importante provvedimento».

Realisticamente, è pensabile che si possa sottoscrivere un nuovo grande patto sociale senza l’assenso della Cgil?

ICHINO: «Con la Cgil, oltre che ovviamente con Cisl e Uil, deve essere definito il quadro delle regole sulla rappresentanza e sulla contrattazione, in modo che, in caso di dissenso insanabile, sia chiaro chi può contrattare con efficacia generale. Se il sistema delle relazioni sindacali non riesce a produrre questa cornice di regole accettate da tutte le confederazioni maggiori, deve provvedere la legge in via sussidiaria e provvisoria. Poi, entro questa cornice, anche visioni e strategie sindacali diverse potranno convivere, confrontarsi e competere, senza paralizzarsi a vicenda. In un regime di pluralismo sindacale, il dissenso tra sindacati dovrebbe essere considerato fisiologico, non patologico».

CAZZOLA: «C’è un principio generale che deriva direttamente dal diritto romano: “nemo ad factum cogi potest”, nessuno può essere costretto ad eseguire un’opera  se non vuole. La Cgil non farà mai un patto sociale finché al governo sta il centro destra. Io ho predisposto un progetto di legge costituzionale di riforma dell’articolo 39 della Costituzione che potrebbe superare e risolvere la questione del “convitato di pietra” della Cgil.  Ovviamente il progetto non percorrerà neppure un centimetro. Per adesso mi limito a sperare in Sergio Marchionne».

Tralasciando le posizioni ideologiche dei fautori della nuova lotta di classe, sul caso Pomigliano molti hanno criticato la politica per la sua assenza. Si dirà che non è opportuno che  il governo  intervenga nelle relazioni interne a un’azienda, ma è anche vero che le mosse di un’azienda   sono comunque condizionate dalle misure  dei governi nazionali. Per restare alla Fiat:  il governo americano è nell’azionariato della Chrysler; e la  Serbia ne  attira gli investimenti   grazie a un mix di  sussidi e detassazioni. Insomma, nel resto del mondo la politica non è neutrale…

ICHINO: «In una situazione come quella dello stabilimento di Pomigliano, dove si manifestano gli effetti della concorrenza dei lavoratori dei Paesi emergenti nella fascia professionale più bassa, lo Stato può rendersi utile facendo tre cose: ridurre la tassazione sui salari, come dicevamo sopra; dettare in via sussidiaria le regole di democrazia sindacale necessarie per la validità dell’accordo sul piano industriale, se il sistema della contrattazione collettiva non riesce a darsele da solo; migliorare le infrastrutture circostanti e i servizi all’impresa, a partire da quelli di riqualificazione professionale dei lavoratori. A me sembra che a Pomigliano il governo non abbia fatto e non stia facendo nessuna di queste tre cose: anzi, il ministro del Lavoro teorizza la necessità di non intervenire in alcun modo».

CAZZOLA: «Il governo ha fatto bene a girare al largo del caso Pomigliano. Quanto a noi, i vincoli europei ci vietano, per fortuna, di  alterare la concorrenza con aiuti dello Stato alle imprese».

Chi è più in ritardo con l’appuntamento della ripresa? Gli imprenditori, i sindacati o la classe politica?

ICHINO: «Tutto il sistema Italia è in grave ritardo. Questo ritardo si manifesta soprattutto nella sua chiusura agli investimenti stranieri: così subiamo la parte cattiva della globalizzazione, cioè le delocalizzazioni e la concorrenza dei Paesi emergenti nella fascia professionale bassa del mercato del lavoro, e non siamo in grado di beneficiare della parte buona, che consiste nella possibilità di attirare sul nostro territorio il meglio dell’imprenditoria mondiale. D’altra parte, tutte le misure necessarie per aumentare l’afflusso di investimenti stranieri avrebbero anche effetti positivi sulla produttività delle imprese che già operano qui: mi riferisco alla maggiore efficienza delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, alla maggiore concorrenza nei mercati dei servizi alle imprese, alla diffusione della cultura delle regole, ma anche a un ordinamento migliore delle relazioni sindacali e a una grande semplificazione della legislazione in materia di lavoro».

CAZZOLA: «Il sindacato in termini generali. Ma non è il caso di dare giudizi complessivi. Parte della politica non è in ritardo, altra lo è. Gli imprenditori sono in genere quelli meno in ritardo. Alcuni di loro, specie i piccoli e i medi, sono tra i protagonisti della ripresa».

Spesso si liquida il tema della partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa dichiarandosi contrari alla cogestione. Ma nella terra di mezzo tra cogestione, che tutti rigettano, e compartecipazione agli utili, che tutti approvano, ci sono forme di rappresentanza dei lavoratori che varrebbe la pena di sperimentare?

ICHINO: «Nel testo unificato dei disegni di legge di maggioranza e opposizione, che ho presentato alla Commissione Lavoro del Senato nell’aprile dell’anno scorso e sul quale si era registrato un largo consenso bi-partisan, si prevedono nove forme possibili di partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Nessuna obbligatoria: per ciascuna di esse si prevede la necessità di un contratto aziendale istitutivo, che l’azienda ha tutto il diritto di rifiutarsi di stipulare. Ma si dettano le norme tributarie e di disciplina contrattuale necessarie perché queste forme di partecipazione possano diffondersi; e anche perché possa nascerne una competizione positiva tra di esse. Questo essendo il contenuto del progetto, francamente, non comprendo perché la Confindustria vi si opponga: di che cosa ha paura? E ancor meno capisco perché il governo subisca passivamente il veto di Confindustria».

 

CAZZOLA: «Purtroppo al Senato vi sono iniziative legislative congelate. Quando si vuole rendere protagoniste le parti sociali si finisce sempre per subirne i veti di tutte o di qualcuna di esse. In questo caso vi è stato un veto convergente tra Confindustria e Cgil. L’importante è procedere con iniziative che incentivino anche sul piano retributivo la produttività e la condivisione degli obiettivi, nonché la compartecipazione agli utili.  Per il resto sarebbe sufficiente valorizzare la c.d. prima parte dei contratti».

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